sabato 9 dicembre 2006

Genesi dell'Antropologia Teatrale

In tutte le culture sono stati fissati alcuni momenti che segnano la transizione da una tappa ad un’altra. Cerimonie che accompagnano la nascita di bambini, che stabiliscono l’entrata dell’adolescente nell’età adulta…


Vi sono tre aspetti che ogni cultura deve possedere:

  • la produzione materiale attraverso delle tecniche,
  • la riproduzione biologica che permette di trasmettere l’esperienza di generazione a generazione e,
  • la produzione di significati

Per una cultura è essenziale produrre significati. Se non li produce non è una cultura.

Definizione

L’Antropologia Teatrale è lo studio del comportamento scenico pre-espressivo che sta alla base dei differenti generi, stili, ruoli e delle tradizioni personali o collettive.
In una situazione di rappresentazione organizzata, la presenza fisica e mentale dell’attore si modella secondo principi diversi da quelli della vita quotidiana. L’utilizzazione extra-quotidiana del corpo-mente è ciò che si chiama Tecnica.
In genere la professione dell’attore inizia con l’assimilazione di un bagaglio tecnico che viene personalizzato.
L’Antropologia Teatrale non cerca di fondere, accumulare o catalogare le tecniche dell’attore, cerca il semplice: la tecnica delle tecniche. Con parole diverse apprendere ad apprendere.
L’antropologia teatrale indica un nuovo campo di indagine: lo studio del comportamento pre-espressivo dell’essere umano in situazione di rappresentazione organizzata.
Il lavoro dell’attore fonde in un unico profilo tre diversi aspetti corrispondenti a tre livelli di organizzazione:

> La personalità dell’attore, la sua sensibilità, la sua intelligenza artistica, la sua individualità sociale che rendono il singolo attore unico e irripetibile.
> La particolarità della tradizione scenica e del contesto storico - culturale attraverso cui l’irripetibile personalità dell’attore si manifesta.
> L’utilizzazione del corpo – mente secondo tecniche extra – quotidiane basate sui principi che ritornano transculturali.

La sola affinità che lega l’Antropologia Teatrale ai metodi ed ai campi di studio dell’antropologia culturale è la consapevolezza che, quanto appartiene alla nostra tradizione e ci appare come realtà, può invece rivelarsi un nodo di problemi inesplorati.
Una cosa importante da notare è che la comprensione storia del teatro è spesso bloccata o resa superficiale dal trascurare la logica del processo creativo, dall’incomprensione del pensiero empirico degli attori, cioè dall’ incapacità di superare i confini stabiliti per lo spettatore.


Principi che ritornano

L’Antropologia Teatrale è uno studio sull’attore e per l’attore.
Esistono fondamentalmente due tipi diversi di attore che noi chiameremo l’attore polo Nord e l’attore polo Sud.

L’attore Polo Nord è quello apparentemente meno libero. Modella il suo comportamento scenico secondo una rete ben sperimentata di regole che definiscono uno stile o un genere codificato.
Accetta un modello di persona scenica che è stato stabilito da una tradizione.
L’attore del Polo Sud non appartiene ad un genere spettacolare caratterizzato da un dettagliato codice stilistico. Non gli è fornito un repertorio di regole tassativela rispettare. Deve costruirsi da sé le regole sulle quali appoggiarsi.
Userà come punti di partenza le suggestioni che gli derivano di testi recitati, dall’osservazione del comportamento quotidiano, dallo studio dei libri e dei quadri, dalle indicazioni del regista. L’attore Polo Sud è apparentemente più libero.

Contrariamente a quanto appare a prima vista, è l’attore del Polo Nord ad avere una maggiore libertà artistica mentre l’attore del Polo Sud è invece facilmente prigioniero dell’arbitrio e di una eccessiva mancanza di punti di appoggio.

Quotidiano ed extra-quotidiano

Molti attori del Polo Nord posseggono una qualità di presenza che stimola l’attenzione dello spettatore quando fanno una dimostrazione tecnica. In tale situazione vi è un nocciolo di energia che cattura i nostri sensi.
Si può distinguere una tecnica quotidiana da una extra – quotidiana in quanto nel contesto quotidiano la tecnica del corpo è condizionata dalla cultura, dallo stato sociale, dal mestiere. Ma in una situazione di rappresentazione esiste una tecnica del corpo differente.

Le tecniche quotidiane del corpo sono in genere caratterizzate dal principio del minimo sforzo, cioè dal conseguimento della massima resa con il minimo impiego di energia.

Le tecniche extra – quotidiane si basano sullo spreco di energia.


In Giappone c’è una bella espressione che fa capire bene qual è l’ottica verso gli attori, questa espressione è : otsukarasama che vuol dire grazie per esserti molto stancato per me…
Le tecniche quotidiane del corpo tendono alla comunicazione, quelle extra – quotidiane tendono all’informazione: esse mettono in forma il corpo rendendolo artificiale/artistico, ma credibile.

C’è anche chi riconosce la bravura di un attore da come cammina…! Questo è il caso di Majerchol’d che affermava di riconoscere il talento di un attore dai piedi, dal dinamismo con cui poggiavano sul terreno e si spostavano.
Evocava per l’attore la camminata vigorosa, funzionale, non elegante del marinaio sul ponte della nave che baccheggia. Per uno dei suoi esercizi parlava addirittura di Estasi delle gambe!
Charles Dullin ripeteva sempre che la caratteristica di un principiante è di non saper camminare in scena.


La danza delle opposizioni

La rigida distinzione fra il teatro e la danza rivela una ferita profonda, un vuoto di tradizione che rischi continuamente di attrarre l’attore verso il mutismo del corpo, e il danzatore verso il virtuosismo.
Queste distinzione apparirebbe assurda agli artisti delle tradizione classiche asiatiche, così come sarebbe apparsa assurda ad artisti europei di altre epoche storiche come un giullare o un attore della Commedia dell’Arte o del Teatro elisabettiano.
Il corpo dell’attore rivela la sua vita allo spettatore in una miriade d tensioni di forze contrapposte. È il principio dell’opposizione. Nell’opera di Pechino il sistema codificato dei movimenti dell’attore si regge su questo principio: ogni azione deve iniziare dalla direzione opposta a quella verso cui si dirige.
Per il maestro balinese I Made Pasek Tempo la dote principale per un attore è la resistenza.

Incoerenza coerente e virtù dell’omissione

È interessante constatare come alcuni attori si allontanino dalle tecniche del comportamento quotidiano anche quando debbono compiere semplici azioni (stare in piedi, sedersi, camminare…)
Gli attori del Polo Sud quando arrivano al culmine della loro esperienza sanno modellare i propri muscoli governati di raffinati automatismi ella vita quotidiana.
Gli attori del Polo Nord invece non ricorrono alla verosimiglianza con il comportamento quotidiano.

Il Viaggio di Eugenio Barba

La vita è un viaggio, un cammino individuale, che non comporta mutamenti di luogo. Sono gli avvenimenti e il fluire del tempo a mutare una persona.
In ogni cultura ci sono cerimonie che scandiscono le tappe di questo viaggio, la nascita, l’adolescenza, l’età adulta….
Solo il passaggio dall’età adulta alla vecchiaia non è scandita da una cerimonia.
La transizione è cultura. Ogni cultura deve possedere tre aspetti:
Produzione materiale attraverso delle tecniche
La riproduzione biologica che trasmette l’esperienza da generazione a generazione
La riproduzione d significati

SATS

I danzatori e gli attori asiatici recitano e danzano con una piccola particolarità, hanno le ginocchia piegate. E sono le ginocchia a contenere il Sats, l’impulso di un’azione che ancora si ignora. (posizione di base di molti sport, tennis, pugilato…).
Il principio dell’alterazione dell’equilibrio.
Questo continuo vestirsi e svestirsi dalla tecnica creava una tecnica extra quotidiana.

Il teatro mi permette di non appartenere a nessun luogo, di non essere ancorato a nessuna prospettiva, di rimanere in transizione.

L’antropologia teatrale è lo studio del comportamento scenico, per –espressivo che sta alla base dei differenti generi, stili e ruoli.
La presenza fisica mentale dell’attore si modella secondo principi diversi da quelli della vita quotidiana.
L’utilizzazione extra – quotidiana del corpo mente è ciò che si chiama tecnica.
Così la presenza dell’attore, il suo BIOS scenico, è in grado di tenere l’attenzione dello spettatore prima di trasmettere qualsiasi messaggio.
Il BIOS scenico permette di apprendere ad apprendere

L’a.t. è lo studio del comportamento pre-espressivo dell’essere umano in una situazione organizzata, per l’attore ci sono due diverse categorie in cui oriente e occidente non sono da separare, non teatro orientale e occidentale, ma…
POLO NORD è quello apparentemente meno libero, ma ha maggiore libertà artistica
POLO SUD è caratterizzato da un codice stilistico, non gli è stato fornito un repertorio di regole tassative. Inizia con la sua personalità è Apparentemente + libero, Non ha punti d’appoggio nella recitazione.

Teatro estraneo / camminare in scena

Etienne Decroix (mimo) un attore deve mantenersi lontano da contaminazioni stilistiche, proibiva ai suoi attori, di accostarsi a forme teatrali
Le arti si somigliano nei loro principi, non le loro opere
La tecnica quotidiana dell’equilibrio tende verso un equilibrio di lusso
Louis Jouvet bisogna imporsi delle regole semplici da non tradire mai
Stanislvsky spiega i diversi modi di appoggiare per terra
Mejerchol affermava di riconoscere il talento di un attore da come camminava in scena

Le differenti culture hanno diverse tecniche del corpo, se si cammina o non con le scarpe, se si portano pesi o no in testa. Ciò fa parte del Bios scenico, al quotidiano si contrappongono delle tecniche extra quotidiano.

Tecniche quotidiane ……………. Minimo sforzo
Tecniche extra – quotidiane ………….. Massimo sforzo
Mettono in forma il corpo rendendolo artificiale ma credibile.

· In Giappone gli spettatori ringraziavano gli attori con “Otsukama” ti sei molto stancato per me
· Gli uomini vestiti di nero recitano l’assenza KOKKEN ( gli intenditori affermano che è più difficile essere Kokken che attore).
· L’attore Kabuki cambia movimento alle gambe e piega le anche, innesca la vita dell’attore con la sua camminata, anche nel teatro balinese, dove l’attore è obbligato a divaricare le gambe
· In scena si impara a camminare ex novo in scena.

venerdì 1 dicembre 2006

No Copyright

[No Copyright per usi non commerciali, deve sempre essere riconosciuta la paternità dell’opera.]

di Marco Caponera

Copyright e No Copyright
Questo scritto intende inserirsi nell’attuale dibattito su copyright, copyleft [1] e no copyright, animato da numerosi interventi di esperti di informatica e recentemente anche da autori di letteratura e saggistica.Iniziamo da alcuni chiarimenti sintetici per passare successivamente al vaglio critico di ciascuna affermazione.- L’assenza di diritto d’autore in materia di editoria cartacea e telematica non è: dannosa per l’autore stesso, poiché il copyright non esiste per tutelare l’autore ma altri soggetti.- Non è: copyleft, o almeno non necessariamente, perché non è necessario dotare il proprio lavoro di una speciale licenza per permettere gli usi non commerciali, basta semplicemente non chiedere il rispetto del copyright.- Non è: opera collettiva, o non soltanto. Conta poco ai fini del copyright il fatto che siano uno o più autori a voler abolire detta norma per i propri testi, la scelta del no copyright non è scelta collettiva, ma personale.- Non è open source[2]: perché i meccanismi che sono alla base della cooperazione informatica per la realizzazione di software sono differenti da quelli che portano alla realizzazione, anche collettiva, di un libro o di una produzione artistica.Molti, alcuni in buona fede, credono che si debbano imporre dei paletti alla libera circolazione delle scritture e delle idee. Ciò a mio avviso è errato e per una lunga teoria di motivi tutti facilmente argomentabili, vediamone alcuni:
1) Chiunque pensi qualcosa lo fa all’interno di una cultura e a partire dal proprio bagaglio di conoscenze. Cultura e conoscenza derivano dalle idee e dalle azioni di altri, a prescindere dal diritto d’autore sulle stesse. Ciascuno deriva da altri il proprio pensiero, anche se indirettamente. Direttamente derivato, invece, è il bagaglio di strumenti letterari che l’autore usa nei suoi testi: lo stile, i riferimenti, le citazioni, le suggestioni che utilizza fanno sempre parte di una tradizione dello scrivere e del pensare, anche quando l’intenzione è l’abbattimento di questa tradizione, il riferimento è comunque presente come avversario cui ci si confronta.La citazione in particolare è un vero e proprio “furto” autorizzato. Non ci dovrebbe poter essere copyright di sorta per interviste, antologie, letture critiche perché il debito nei confronti degli autori coinvolti è troppo grande per essere eventualmente risolto attraverso il pagamento di pochi centesimi di royalties. Interpretare le idee di qualcuno è già “rubarle”. Non che io abbia qualcosa contro questi “furti” s’intende, purché si abbia l’onestà intellettuale di riconoscerlo.
2) L’autore sa, quando scrive, che le proprie idee saranno lette. La preoccupazione di qualunque autore onesto non è quella di vendere migliaia di copie, ma di avere migliaia di lettori. A questo scopo l’assenza di un copyright non è l’assenza di qualcosa, perché l’autore non è affatto tutelato dal copyright. Il no copyright è una scelta che libera dall’impostura della “proprietà” intellettuale. Un “diritto” che può decadere non è tale. È soltanto uno strumento di protezione economica, non intellettuale. Questo testo è privo di copyright per usi non commerciali, ma chiunque, dopo questa pubblicazione, vorrà confrontarsi su questo tema dovrà, se è onesto, prendere atto delle posizioni espresse in queste pagine, se non lo fa l’eventuale copyright, che io avessi voluto applicare, non avrebbe aiutato di una virgola. E tanto meno mi avrebbe consentito di controllare l’uso di questo scritto da parte dell’editore. Ora è vero che chiunque può utilizzare questo scritto nei modi che riterrà opportuni, ma non potrà prescindere dal riconoscere al sottoscritto la paternità dei contenuti, poiché Marco Caponera, quando leggerete questo testo, lo starà facendo circolare quanto più gli è possibile per far conoscere le proprie idee mettendole in connessione con quelle di altri.Il copyright, proseguendo, non protegge l’autore, poiché non riesce a proteggerlo nemmeno dal proprio editore, primo interlocutore di chiunque scriva qualcosa. Quando scrissi “Transgenico NO” per la Malatempora Editrice di Roma, proposi di inserire la dicitura “No Copyright”, non “copyleft” una definizione post moderna che non amo. Il no copyright mi da l’impressione di un opposizione a un modello di pensiero dominante e calcolante, il copyleft mi sembra la concessione di una “grazia” di cui invito i lettori a fare a meno.L’editore nel colophon del libro spiegò l’assenza di copyright con la motivazione che i testi erano frutto di lavoro collettivo. Un po’ per mettersi la coscienza a posto nei confronti dei testi di altri che aveva utilizzato in alcuni box d’approfondimento, un po’ per frainteso significato della scelta ideologica che stavamo facendo. Scrivo questo per dovere nei confronti di chi lesse quel libro e lo ritenne privo di copyright per i motivi suddetti, anziché per il fatto che l’autore del 90% del testo non volesse il copyright. Ricordo però a lato di questo discorso che mi fece un piacere enorme vedere in occasione di una presentazione nella città di Firenze che gli squattrinati studenti di Filosofia erano tutti presenti chi con il libro sotto braccio, chi con le fotocopie dello stesso. Se un autore è onesto ha piacere che le proprie idee circolino, se non lo è si prepari perché soffrirà le pene dell’inferno, poiché il copyright non lo tutela in nessun modo.
3) Ma perché non lo tutela? Presto detto, perché la definizione “diritto d’autore” è demagogica, la definizione corretta sarebbe “diritto d’editore”.La definizione che emerge, ad esempio, analizzando l’ultima riforma legislativa italiana in questo settore evidenzia chiaramente come beneficiario, e fine, della riforma l’editore (o la casa discografica, o l’azienda di software) e soltanto questo.Come ogni autore sa bene è difficilissimo sapere dall’editore quante copie sono state vendute del proprio amato libro. Questo perché, il più delle volte, il compenso a lui spettante è stabilito in percentuale rispetto al venduto. Fingere che non si sia venduto è il modo migliore per frodare l’autore. Ma, qualcuno dirà: l’autore ha un arma infallibile per verificare i dati di vendita, la SIAE. Certo, la SIAE vende dei contrassegni agli editori (si usano sempre meno perché troppo cari) da apporre su ciascuna copia, al fine di verificare ogni passaggio fatto dal libro, dall’editore al compratore finale. Spesso però accade che nemmeno la SIAE sia aggiornata sui dati, e quando li ha funge soltanto da base statistica, non operativa. Sarà l’autore che con i dati SIAE in mano dovrà andare a rivalersi dall’editore. Il più delle volte, insomma, se non si vuole interrompere precocemente una carriera da scrittore, si deve fare buon viso a cattivo gioco, ingoiando il boccone amaro. Il tutto sotto l’austera e imparziale egida del diritto d’editore!
4) La presente legge punisce chi copia alla stregua di chi trae un utile nel farlo. Ciò è ridicolo, preferisco essere “derubato” che essere responsabile di aver mandato in tribunale uno studente perché non aveva i soldi per comprare un mio libro.Certo non si può regalare un libro a chiunque ne abbia bisogno, ma sicuramente si può auspicare fortemente che ciascuno lo fotocopi per sé e per coloro che possono essere interessati. Questo meccanismo non manderà mai in crisi il sistema editoriale, non quello basato sulla cooperazione, sulla calmierazione dei prezzi e sull’antagonismo nei confronti di un modello politico-economico-culturale, che non appartiene alla maggioranza della popolazione. Poiché coloro che acquistano un libro di questo tipo sanno che i propri soldi stanno andando in una direzione sana. Purtroppo non danneggia nemmeno l’editoria di costo elevato (e scarso livello culturale), perché avere le fotocopie del pregiatissimo cartonato dell’ultimo libro di Bruno Vespa è poca cosa, e sicuramente il gentile signore che intenderà acquistarlo per farne omaggio - mai per leggerlo - non troverebbe vantaggioso per la sua immagine il far dono di un mazzetto di fotocopie.
Copyleft
Tra i fautori del copyleft ci sono alcuni critici nei confronti del no copyright. A mio avviso c’è molta confusione su questi temi e la confusione è dovuta soprattutto ad un atteggiamento intellettuale. Molti pensano che anziché puntare il dito si debba “lottare dall’interno”, ma così facendo non riescono a rendersi conto che hanno iniziato a lottare con le stesse armi e con le stesse strutture concettuali del potere cui intendevano precedentemente opporsi o contestare. La struttura delle licenze[3], propria del copyleft, ad esempio, rappresenta un’istituzione che intende sostituirne un’altra, ma la storia ci ha insegnato molto bene cosa accade quando a un potere se ne è voluto sostituire un altro. Gli errori che tale impostazione corrotta porta con sé sono almeno di due tipi:- Il primo è la confusione del concetto di “proprietà” intellettuale con quello ben differente di “paternità” (o “maternità”, fa lo stesso) intellettuale”. Questa distinzione mostra come siano differenti i retroterra ideologici delle due definizioni: la prima mostra apertamente i suoi legami con mentalità economicistiche e calcolanti, il secondo invece coglie il dato di fatto sulla paternità (o maternità) di un opera. Faccio un esempio: se io oggi volessi inserire in un mio testo, appropriandomene, il concetto di oltreuomo (meglio noto forse come superuomo) di F. Nietzsche, a rigor di normativa internazionale in materia di diritto d’autore potrei farlo, poiché sono trascorsi più di 70 anni dalla morte dell’autore. Ma questo non mi metterebbe comunque al riparo dall’essere messo in ridicolo da tutta la vasta comunità dei conoscitori del pensiero di Nietzsche. E dire che io potrei ritradurre, ristampare, estrapolare dei passi senza che nessuno mi possa imputare alcunché. Ancora tutto ciò non mi eviterebbe il pubblico scherno, se non facessi un lavoro all’altezza dell’autore e intellettualmente onesto. Questo esempio mi pare che illustri meglio di mille dotte metafore ciò che intendo per paternità e proprietà delle idee. Se un diritto può decadere allora è evidente che l’intento non è quello di sancire definitivamente dei paletti intorno alle opere, ma semplicemente di determinarne lo sfruttamento economico da parte di chi detenga il copyright sulla stesse, e più spesso di quanto s’immagini non è l’autore. La paternità invece ci sarà sempre e sarà sempre dell’autore a prescindere dalla forma con cui la si vuol tutelare, copyright, copyleft o no copyright. Il problema della proprietà dell’opera si può risolvere, a mio modo di vedere, con una semplice formula da anteporre al testo, magari nello spazio del colophon ed è: no copyright ad esclusione degli utilizzi per fini di lucro (o commerciali che dir si voglia). Se è chiara la distinzione di cui sopra allora si potrà capire perché sono inutili lunghe e argomentate licenze che si pongono l’arduo compito di tutelare qualcosa che non può essere tutelato, lasciando scoperto qualcosa che può essere invece tenuto in considerazione.- Il secondo tipo è la presunzione di aver inventato qualcosa di nuovo.Mi spiego meglio. Questa epoca, ma forse tutte, è piena di soggetti che pensano di aver inventato qualcosa, semplicemente perché non informati che quel qualcosa esisteva già, magari in forme leggermente differenti, a loro insaputa. Ebbene, i fautori del copyleft sarebbero gli inventori della condivisione dei saperi, che appunto il copyleft avrebbe liberato dalle strette maglie del diritto d’autore. La presunta innovazione del copyleft starebbe nella possibilità di far circolare le idee e di perfezionarle collettivamente grazie alla possibilità data all’autore di inserire, al posto del solito copyright, una licenza disegnata ad hoc per consentire questi usi, generalmente escludendo i fini commerciali. Credo fortemente che ci troviamo di fronte a soggetti che hanno un retroterra meramente informatico, altrimenti non avrei scuse, poiché chiunque sa che ad aver inventato la libera circolazione delle idee e il reciproco intervento per migliorarle sono le “culture orali”. Altro che Internet, software e file sharing, la libera circolazione delle idee esiste da quando l’uomo, e la donna, hanno iniziato a raccontarsi delle storie vere o di fantasia, poco conta. Chiunque conosca un Mito o abbia ascoltato il proprio nonno raccontare storie intorno a un fuoco sa che in ciascun racconto c’è una parte fedelmente riportata e un’altra fatta propria e rielaborata da chi racconta. In tutti i Miti ci sono letture e interpretazioni che differiscono anche di molto, tanto che ancora oggi si studiano approfonditamente per svelarne gli intimi segreti. Tutto quello che oggi contraddistingue la cooperazione informatica o letteraria (questa in misura certamente minore) è pratica millenaria.Se si dice che l’open source e il copyleft aiutino a combattere il monopolio informatico di Bill Gates sono d’accordo, se mi si vuole convincere del fatto queste forme siano indispensabili per la libera circolazione delle idee trovo che si stia facendo della demagogia. Insieme questi due tipi di errore forniscono un’idea distorta e controproducente dell’idea di protezione, creazione, condivisione e collaborazione intellettuale. Non vorrei apparire pedante nel riportare alla mente addirittura il Mito e la cultura orale, ma sarebbe ora che non si usassero le stesse armi del nemico che si combatte per affermare delle verità che vere non sono.Open Source e No copyrightConcludo questo flusso di idee sul tema marcando una distinzione che non vuol essere una presa di distanza, ma sicuramente vorrebbe essere una precisazione di merito su cosa è l’informatica e cosa è la letteratura e la parola scritta. La carta stampata in generale non può, a mio avviso, acquisire tout court le argomentazioni e gli strumenti che gli avversari del copyright si sono dati in ambito informatico. Poiché sono due cose completamente differenti. I programmatori cooperano per realizzare un software che se realizzato da uno soltanto porterebbe con sé mille difetti e scarsa utilità. Quindi la collaborazione incentivata e auspicata dall’open source funziona a meraviglia, molto semplicemente però non è applicabile ai processi di pensiero e artistici.Il “fine” software è differente dal “fine” saggio, poesia, racconto, novella, ecc. Non è sufficiente far leggere ad un altro le proprie idee perché questi le “migliori”, le potrà certamente modificare, ma difficilmente potrà eliminare dei bug, ammesso che ve ne siano. Diversamente la logica di molti software definiti “freeware” si avvicina moltissimo alla logica del no copyright poiché stabilisce chiaramente che l’utilizzo potrà essere gratuito e libero a patto che il determinato software non venga utilizzato per fini commerciali, in quel caso spesso è previsto un pagamento, che se non effettuato genererà una violazione delle clausule per l’uso.Fintanto quindi che i software freeware e open source toglieranno mercato alle multinazionali dell’informatica non potremo che caldeggiare ogni nuova iniziativa, se invece si vuole dare una scossa generale a tutto il mondo del copyright ci si dovrà sedere attorno a un tavolo, anche virtuale, per discutere di analogie ma soprattutto di differenze, riconoscendo a tutte le parti in causa autonomia di giudizio e di movimento. Con i “minestroni” non si affrontano i problemi, al più ci si mette la coscienza a posto. Infine, e non vuole essere né la sintesi né la morale di questo scritto, auspico che nel futuro siano sempre più gli autori che decideranno di avere a cuore le proprie idee e i propri lettori-interlocutori e non soltanto il proprio portafogli, dicendo NO AL COPYRIGHT.
[1] Per ulteriori informazioni sul mondo del copyleft si rimanda al sito: http://www.copyleft-italia.it/.
[2] Per ulteriori informazioni sul mondo dell’open source si rimanda al sito: http://www.opensource.org.
[3] Si veda a questo proposito il sito: http://www.creativecommons.org/.