venerdì 1 dicembre 2006

No Copyright

[No Copyright per usi non commerciali, deve sempre essere riconosciuta la paternità dell’opera.]

di Marco Caponera

Copyright e No Copyright
Questo scritto intende inserirsi nell’attuale dibattito su copyright, copyleft [1] e no copyright, animato da numerosi interventi di esperti di informatica e recentemente anche da autori di letteratura e saggistica.Iniziamo da alcuni chiarimenti sintetici per passare successivamente al vaglio critico di ciascuna affermazione.- L’assenza di diritto d’autore in materia di editoria cartacea e telematica non è: dannosa per l’autore stesso, poiché il copyright non esiste per tutelare l’autore ma altri soggetti.- Non è: copyleft, o almeno non necessariamente, perché non è necessario dotare il proprio lavoro di una speciale licenza per permettere gli usi non commerciali, basta semplicemente non chiedere il rispetto del copyright.- Non è: opera collettiva, o non soltanto. Conta poco ai fini del copyright il fatto che siano uno o più autori a voler abolire detta norma per i propri testi, la scelta del no copyright non è scelta collettiva, ma personale.- Non è open source[2]: perché i meccanismi che sono alla base della cooperazione informatica per la realizzazione di software sono differenti da quelli che portano alla realizzazione, anche collettiva, di un libro o di una produzione artistica.Molti, alcuni in buona fede, credono che si debbano imporre dei paletti alla libera circolazione delle scritture e delle idee. Ciò a mio avviso è errato e per una lunga teoria di motivi tutti facilmente argomentabili, vediamone alcuni:
1) Chiunque pensi qualcosa lo fa all’interno di una cultura e a partire dal proprio bagaglio di conoscenze. Cultura e conoscenza derivano dalle idee e dalle azioni di altri, a prescindere dal diritto d’autore sulle stesse. Ciascuno deriva da altri il proprio pensiero, anche se indirettamente. Direttamente derivato, invece, è il bagaglio di strumenti letterari che l’autore usa nei suoi testi: lo stile, i riferimenti, le citazioni, le suggestioni che utilizza fanno sempre parte di una tradizione dello scrivere e del pensare, anche quando l’intenzione è l’abbattimento di questa tradizione, il riferimento è comunque presente come avversario cui ci si confronta.La citazione in particolare è un vero e proprio “furto” autorizzato. Non ci dovrebbe poter essere copyright di sorta per interviste, antologie, letture critiche perché il debito nei confronti degli autori coinvolti è troppo grande per essere eventualmente risolto attraverso il pagamento di pochi centesimi di royalties. Interpretare le idee di qualcuno è già “rubarle”. Non che io abbia qualcosa contro questi “furti” s’intende, purché si abbia l’onestà intellettuale di riconoscerlo.
2) L’autore sa, quando scrive, che le proprie idee saranno lette. La preoccupazione di qualunque autore onesto non è quella di vendere migliaia di copie, ma di avere migliaia di lettori. A questo scopo l’assenza di un copyright non è l’assenza di qualcosa, perché l’autore non è affatto tutelato dal copyright. Il no copyright è una scelta che libera dall’impostura della “proprietà” intellettuale. Un “diritto” che può decadere non è tale. È soltanto uno strumento di protezione economica, non intellettuale. Questo testo è privo di copyright per usi non commerciali, ma chiunque, dopo questa pubblicazione, vorrà confrontarsi su questo tema dovrà, se è onesto, prendere atto delle posizioni espresse in queste pagine, se non lo fa l’eventuale copyright, che io avessi voluto applicare, non avrebbe aiutato di una virgola. E tanto meno mi avrebbe consentito di controllare l’uso di questo scritto da parte dell’editore. Ora è vero che chiunque può utilizzare questo scritto nei modi che riterrà opportuni, ma non potrà prescindere dal riconoscere al sottoscritto la paternità dei contenuti, poiché Marco Caponera, quando leggerete questo testo, lo starà facendo circolare quanto più gli è possibile per far conoscere le proprie idee mettendole in connessione con quelle di altri.Il copyright, proseguendo, non protegge l’autore, poiché non riesce a proteggerlo nemmeno dal proprio editore, primo interlocutore di chiunque scriva qualcosa. Quando scrissi “Transgenico NO” per la Malatempora Editrice di Roma, proposi di inserire la dicitura “No Copyright”, non “copyleft” una definizione post moderna che non amo. Il no copyright mi da l’impressione di un opposizione a un modello di pensiero dominante e calcolante, il copyleft mi sembra la concessione di una “grazia” di cui invito i lettori a fare a meno.L’editore nel colophon del libro spiegò l’assenza di copyright con la motivazione che i testi erano frutto di lavoro collettivo. Un po’ per mettersi la coscienza a posto nei confronti dei testi di altri che aveva utilizzato in alcuni box d’approfondimento, un po’ per frainteso significato della scelta ideologica che stavamo facendo. Scrivo questo per dovere nei confronti di chi lesse quel libro e lo ritenne privo di copyright per i motivi suddetti, anziché per il fatto che l’autore del 90% del testo non volesse il copyright. Ricordo però a lato di questo discorso che mi fece un piacere enorme vedere in occasione di una presentazione nella città di Firenze che gli squattrinati studenti di Filosofia erano tutti presenti chi con il libro sotto braccio, chi con le fotocopie dello stesso. Se un autore è onesto ha piacere che le proprie idee circolino, se non lo è si prepari perché soffrirà le pene dell’inferno, poiché il copyright non lo tutela in nessun modo.
3) Ma perché non lo tutela? Presto detto, perché la definizione “diritto d’autore” è demagogica, la definizione corretta sarebbe “diritto d’editore”.La definizione che emerge, ad esempio, analizzando l’ultima riforma legislativa italiana in questo settore evidenzia chiaramente come beneficiario, e fine, della riforma l’editore (o la casa discografica, o l’azienda di software) e soltanto questo.Come ogni autore sa bene è difficilissimo sapere dall’editore quante copie sono state vendute del proprio amato libro. Questo perché, il più delle volte, il compenso a lui spettante è stabilito in percentuale rispetto al venduto. Fingere che non si sia venduto è il modo migliore per frodare l’autore. Ma, qualcuno dirà: l’autore ha un arma infallibile per verificare i dati di vendita, la SIAE. Certo, la SIAE vende dei contrassegni agli editori (si usano sempre meno perché troppo cari) da apporre su ciascuna copia, al fine di verificare ogni passaggio fatto dal libro, dall’editore al compratore finale. Spesso però accade che nemmeno la SIAE sia aggiornata sui dati, e quando li ha funge soltanto da base statistica, non operativa. Sarà l’autore che con i dati SIAE in mano dovrà andare a rivalersi dall’editore. Il più delle volte, insomma, se non si vuole interrompere precocemente una carriera da scrittore, si deve fare buon viso a cattivo gioco, ingoiando il boccone amaro. Il tutto sotto l’austera e imparziale egida del diritto d’editore!
4) La presente legge punisce chi copia alla stregua di chi trae un utile nel farlo. Ciò è ridicolo, preferisco essere “derubato” che essere responsabile di aver mandato in tribunale uno studente perché non aveva i soldi per comprare un mio libro.Certo non si può regalare un libro a chiunque ne abbia bisogno, ma sicuramente si può auspicare fortemente che ciascuno lo fotocopi per sé e per coloro che possono essere interessati. Questo meccanismo non manderà mai in crisi il sistema editoriale, non quello basato sulla cooperazione, sulla calmierazione dei prezzi e sull’antagonismo nei confronti di un modello politico-economico-culturale, che non appartiene alla maggioranza della popolazione. Poiché coloro che acquistano un libro di questo tipo sanno che i propri soldi stanno andando in una direzione sana. Purtroppo non danneggia nemmeno l’editoria di costo elevato (e scarso livello culturale), perché avere le fotocopie del pregiatissimo cartonato dell’ultimo libro di Bruno Vespa è poca cosa, e sicuramente il gentile signore che intenderà acquistarlo per farne omaggio - mai per leggerlo - non troverebbe vantaggioso per la sua immagine il far dono di un mazzetto di fotocopie.
Copyleft
Tra i fautori del copyleft ci sono alcuni critici nei confronti del no copyright. A mio avviso c’è molta confusione su questi temi e la confusione è dovuta soprattutto ad un atteggiamento intellettuale. Molti pensano che anziché puntare il dito si debba “lottare dall’interno”, ma così facendo non riescono a rendersi conto che hanno iniziato a lottare con le stesse armi e con le stesse strutture concettuali del potere cui intendevano precedentemente opporsi o contestare. La struttura delle licenze[3], propria del copyleft, ad esempio, rappresenta un’istituzione che intende sostituirne un’altra, ma la storia ci ha insegnato molto bene cosa accade quando a un potere se ne è voluto sostituire un altro. Gli errori che tale impostazione corrotta porta con sé sono almeno di due tipi:- Il primo è la confusione del concetto di “proprietà” intellettuale con quello ben differente di “paternità” (o “maternità”, fa lo stesso) intellettuale”. Questa distinzione mostra come siano differenti i retroterra ideologici delle due definizioni: la prima mostra apertamente i suoi legami con mentalità economicistiche e calcolanti, il secondo invece coglie il dato di fatto sulla paternità (o maternità) di un opera. Faccio un esempio: se io oggi volessi inserire in un mio testo, appropriandomene, il concetto di oltreuomo (meglio noto forse come superuomo) di F. Nietzsche, a rigor di normativa internazionale in materia di diritto d’autore potrei farlo, poiché sono trascorsi più di 70 anni dalla morte dell’autore. Ma questo non mi metterebbe comunque al riparo dall’essere messo in ridicolo da tutta la vasta comunità dei conoscitori del pensiero di Nietzsche. E dire che io potrei ritradurre, ristampare, estrapolare dei passi senza che nessuno mi possa imputare alcunché. Ancora tutto ciò non mi eviterebbe il pubblico scherno, se non facessi un lavoro all’altezza dell’autore e intellettualmente onesto. Questo esempio mi pare che illustri meglio di mille dotte metafore ciò che intendo per paternità e proprietà delle idee. Se un diritto può decadere allora è evidente che l’intento non è quello di sancire definitivamente dei paletti intorno alle opere, ma semplicemente di determinarne lo sfruttamento economico da parte di chi detenga il copyright sulla stesse, e più spesso di quanto s’immagini non è l’autore. La paternità invece ci sarà sempre e sarà sempre dell’autore a prescindere dalla forma con cui la si vuol tutelare, copyright, copyleft o no copyright. Il problema della proprietà dell’opera si può risolvere, a mio modo di vedere, con una semplice formula da anteporre al testo, magari nello spazio del colophon ed è: no copyright ad esclusione degli utilizzi per fini di lucro (o commerciali che dir si voglia). Se è chiara la distinzione di cui sopra allora si potrà capire perché sono inutili lunghe e argomentate licenze che si pongono l’arduo compito di tutelare qualcosa che non può essere tutelato, lasciando scoperto qualcosa che può essere invece tenuto in considerazione.- Il secondo tipo è la presunzione di aver inventato qualcosa di nuovo.Mi spiego meglio. Questa epoca, ma forse tutte, è piena di soggetti che pensano di aver inventato qualcosa, semplicemente perché non informati che quel qualcosa esisteva già, magari in forme leggermente differenti, a loro insaputa. Ebbene, i fautori del copyleft sarebbero gli inventori della condivisione dei saperi, che appunto il copyleft avrebbe liberato dalle strette maglie del diritto d’autore. La presunta innovazione del copyleft starebbe nella possibilità di far circolare le idee e di perfezionarle collettivamente grazie alla possibilità data all’autore di inserire, al posto del solito copyright, una licenza disegnata ad hoc per consentire questi usi, generalmente escludendo i fini commerciali. Credo fortemente che ci troviamo di fronte a soggetti che hanno un retroterra meramente informatico, altrimenti non avrei scuse, poiché chiunque sa che ad aver inventato la libera circolazione delle idee e il reciproco intervento per migliorarle sono le “culture orali”. Altro che Internet, software e file sharing, la libera circolazione delle idee esiste da quando l’uomo, e la donna, hanno iniziato a raccontarsi delle storie vere o di fantasia, poco conta. Chiunque conosca un Mito o abbia ascoltato il proprio nonno raccontare storie intorno a un fuoco sa che in ciascun racconto c’è una parte fedelmente riportata e un’altra fatta propria e rielaborata da chi racconta. In tutti i Miti ci sono letture e interpretazioni che differiscono anche di molto, tanto che ancora oggi si studiano approfonditamente per svelarne gli intimi segreti. Tutto quello che oggi contraddistingue la cooperazione informatica o letteraria (questa in misura certamente minore) è pratica millenaria.Se si dice che l’open source e il copyleft aiutino a combattere il monopolio informatico di Bill Gates sono d’accordo, se mi si vuole convincere del fatto queste forme siano indispensabili per la libera circolazione delle idee trovo che si stia facendo della demagogia. Insieme questi due tipi di errore forniscono un’idea distorta e controproducente dell’idea di protezione, creazione, condivisione e collaborazione intellettuale. Non vorrei apparire pedante nel riportare alla mente addirittura il Mito e la cultura orale, ma sarebbe ora che non si usassero le stesse armi del nemico che si combatte per affermare delle verità che vere non sono.Open Source e No copyrightConcludo questo flusso di idee sul tema marcando una distinzione che non vuol essere una presa di distanza, ma sicuramente vorrebbe essere una precisazione di merito su cosa è l’informatica e cosa è la letteratura e la parola scritta. La carta stampata in generale non può, a mio avviso, acquisire tout court le argomentazioni e gli strumenti che gli avversari del copyright si sono dati in ambito informatico. Poiché sono due cose completamente differenti. I programmatori cooperano per realizzare un software che se realizzato da uno soltanto porterebbe con sé mille difetti e scarsa utilità. Quindi la collaborazione incentivata e auspicata dall’open source funziona a meraviglia, molto semplicemente però non è applicabile ai processi di pensiero e artistici.Il “fine” software è differente dal “fine” saggio, poesia, racconto, novella, ecc. Non è sufficiente far leggere ad un altro le proprie idee perché questi le “migliori”, le potrà certamente modificare, ma difficilmente potrà eliminare dei bug, ammesso che ve ne siano. Diversamente la logica di molti software definiti “freeware” si avvicina moltissimo alla logica del no copyright poiché stabilisce chiaramente che l’utilizzo potrà essere gratuito e libero a patto che il determinato software non venga utilizzato per fini commerciali, in quel caso spesso è previsto un pagamento, che se non effettuato genererà una violazione delle clausule per l’uso.Fintanto quindi che i software freeware e open source toglieranno mercato alle multinazionali dell’informatica non potremo che caldeggiare ogni nuova iniziativa, se invece si vuole dare una scossa generale a tutto il mondo del copyright ci si dovrà sedere attorno a un tavolo, anche virtuale, per discutere di analogie ma soprattutto di differenze, riconoscendo a tutte le parti in causa autonomia di giudizio e di movimento. Con i “minestroni” non si affrontano i problemi, al più ci si mette la coscienza a posto. Infine, e non vuole essere né la sintesi né la morale di questo scritto, auspico che nel futuro siano sempre più gli autori che decideranno di avere a cuore le proprie idee e i propri lettori-interlocutori e non soltanto il proprio portafogli, dicendo NO AL COPYRIGHT.
[1] Per ulteriori informazioni sul mondo del copyleft si rimanda al sito: http://www.copyleft-italia.it/.
[2] Per ulteriori informazioni sul mondo dell’open source si rimanda al sito: http://www.opensource.org.
[3] Si veda a questo proposito il sito: http://www.creativecommons.org/.

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