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lunedì 11 giugno 2007

No Copyright / parte II

L’editore no copyright
di Marco Caponera

Così come controverso appariva per l’autore, così il copyright appare in relazione alla figura dell’editore. Precedentemente ho avuto modo di spiegare come di fatto si avvantaggi più l’editore dell’autore della presenza della protezione del copyright, ma anche l’editore ha modo di porsi in una posizione antagonista allo status quo, ma facendo a sua volta una scelta assolutamente radicale.
Infatti, apparentemente violare, liberarsi, dal copyright costituirebbe un danno per una qualunque casa editrice, ma così non è.
I due esempi di postilla al no copyright che suggerivo recitavano rispettivamente: “deve essere citata la paternità dell’opera”: e questa è evidentemente diretta a favorire la “presenza” dell’autore in relazione allo scritto; mentre l’altra “ad esclusione dei fini commerciali”: è invece diretta a escludere lo sfruttamento commerciale dell’opera da parte di soggetti estranei alla pubblicazione.
In questo caso il vantaggio è sì per l’autore ma anche e soprattutto per l’editore nel vedere tutelato il proprio lavoro. Scendendo nel particolare, tempo fa, quando lavoravo part-time presso la biblioteca della mia facoltà mi capitò di comunicare all’editore di un bollettino editoriale, il fatto che il loro distributore per le biblioteche, proprio in virtù dell’assenza totale di copyright della pubblicazione, provvedeva a inviarne una versione in fotocopia a tutti i propri clienti, ricavandone un pagamento pieno rispetto alla pubblicazione originale. Mentre all’editore dell’opera non arrivava che il pagamento di un’unica copia, quella per realizzare le fotocopie. Questa operazione, a ben vedere, potrebbe avere anche gli estremi di una truffa poiché le biblioteche pagavano il prezzo della rivista originale, venendo in possesso di una semplice fotocopia. Per l’editore invece non può dirsi altrettanto perché fotocopiare, anche per fini commerciali, quel bollettino era consentito proprio dalla rinuncia alla tutela del copyright. Questo esempio mi sembra illustri molto bene quanto intendo dire al proposito.
L’opera libro, o rivista, infatti non è soltanto costruita dal suo contenuto, ma anche da tutti gli elementi che ne costituiscono la “forma”: il formato, la copertina, il tipo di carta, il lavoro bio-bibliografico, di cura, di editing e di impaginazione. Tutti questi elementi caratterizzano l’opera nel suo complesso e nella sua forma materiale. Il libro, la rivista. Ora non considerare questo lavoro equivarrebbe a considerare l’editore alla stregua di un tipografo, e non è così.
La dicitura di cui parlavo, rende possibile qualificare queste attività e la protezione dell’opera passa significativamente da una protezione limitante della circolazione delle idee, dentro la logica del diritto d’autore, a una semplice tutela del lavoro svolto per realizzare l’oggetto libro, fuori da questa logica ma non per le attività lucrative. I principi che fondano le due impostazioni ideologiche sono molto differenti. L’importanza ideologica del no copyright rimane quindi immutata. La possibilità oggettiva di circolazione anche dell’intero libro anch’essa immutata, viene però impedito a soggetti estranei di impossessarsi di un guadagno realizzato a danno del lavoro altrui.
Perché un editore “alternativo” possa affermarsi non serve il copyright, che come per l’autore, è soltanto uno specchietto per le allodole che serve per tutelare ben altri interessi.
Per comprendere ancora meglio si deve ampliare il discorso: il problema vero che ogni editore conosce bene è la possibilità di avere visibilità mediatica, una distribuzione almeno nazionale e l’effettiva presenza in libreria.
Faccio un altro esempio sempre legato alla mia esperienza diretta: la casa editrice per cui curo la collana di saggistica, Le Nubi Edizioni, ha apposto il no copyright sul mio libro, “La sparizione del reale”. Questo testo, attualmente risulta essere il più venduto della collana di saggistica – anche grazie alla bella illustrazione di copertina realizzata da Virginia Bray, una illustratrice dalle grandi capacità simboliche di interpretazione del testo – anche in presenza di autori ben più importanti e affermati. Questo, lungi dal volermi paragonare a filosofi di cui sono semmai soltanto un allievo, fa emergere un dato importante in questo contesto. Il libro, indipendentemente dalla copertura del copyright viene acquistato, in molti hanno deciso di spendere i propri denari per entrare in possesso di una copia originale del libro e non di una fotocopia. Non solo, lo stesso titolo verrà tradotto in Portogallo da una casa editrice che stava seguendo alcune opere pubblicate da Le Nubi Edizioni. Anche qui, senza un editore controcorrente non sarebbe stato possibile varcare gli angusti limiti di lingua e nazionali. Senza la visibilità offerta da un sito internet specializzato nella vendita di piccoli e medi editori, con il quale abbiamo realizzato una collaborazione, l’editore portoghese non avrebbe conosciuto la casa editrice. Un circolo virtuoso questo che non è stato per nulla bloccato dalla assenza di protezione del diritto d’autore.

Con questo intendo anche dire che un progetto editoriale alternativo (prendendo il termine nell’accezione più ampia possibile) è frutto di una intenzione precisa e non è un semplice ornamento. Il no copyright non è un accessorio, fare la scelta del no copyright non può essere di “moda”, né di “ornamento” ideologico dei propri scritti. Rifiuto la posizione radical chic di chi “liberalmente” si pone in posizione di superiorità morale nei confronti del copyright. Il no copyright è, prima un’affermazione, poi un atto politico, una forma di antagonismo nei confronti di Microsoft, Vivendi, Sony, RCS, Mondadori ecc… La diffusione conflittuale di idee estranee al sistema in toto, o in massima parte, è immediatamente atto politico, la proliferazione delle idee è un passo necessario, gli strumenti sono perfino ridondanti per lo scopo, ma la loro utilizzazione è spesso contraddittoria o idealizzata. Avere uno strumento a disposizione e saperlo usare non porta automaticamente a un risultato utile alla causa. Come saper scrivere non equivale a scrivere cose intelligenti. C’è bisogno di strumenti, di “attrezzi” critici, che nascono tali e non lo diventano per caso o per fraintendimento.
Il conflitto sul diritto d’autore in questo momento volge al peggio, o almeno così sembra guardando gli accadimenti internazionali. Già stiamo sperimentando i danni madornali dei sistemi anticopia, ma a breve se non si riuscirà a imporre un freno a questi sistemi, che ora sono facoltativi, verranno imposti a tutti i produttori di software e musica, coinvolgendo di fatto anche coloro che sono contrari alla protezione economica dalla copia.
In ambito editoriale della carta stampata, la prima cosa che mi viene in mente possano fare sarà rendere obbligatorio il bollino SIAE cosa che accade già per la musica. Non immagino quale possa essere il passo successivo, ma già a questo punto il copyleft non ci aiuterà più a far apparire belli e liberi i nostri “contenuti” perché la “forma” che questi avranno sarà fatta di sbarre e cancelli e non più di carta e inchiostro.

mercoledì 21 febbraio 2007

Dell'inutile

di Marco Caponera
Anzitutto è inutile che io sia qui, seduto davanti a uno schermo di 17", a scrivere; dovrei essere al lavoro, ma nonostante una volenterosa alzata, sono dovuto tornare a casa, con la coda tra le gambe, per manifesta inferiorità, nel senso che non mi sono sentito bene e non reggendomi in piedi ho preferito lasciare ad altri le mie fatiche.
Così davanti a questa tastiera potrei scrivere l'articolo che aspetta da un po', non lo farò.
Potrei proseguire a lavorare al mio libro, non lo farò!
Potrei dedicarmi allo studio dell'Html, per esempio, non lo farò!
No ho alcuna intenzione di sdraiarmi a letto per riposare, accondiscendendo irreparabilmente alla necessità di un fisico a tratti memore di essere cagionevole, non lo farò!
Scrivo e mi diletto dei miei inutili pensieri inviati senza un valido motivo ad uno o più ignari destinatari, attraverso lo strumento più disumano che conosco...
Sull'inutile come concetto filosofico mi interrogo da anni. Da quando per tutta una serie di inutili e futili coincidenze mi scontrai con diversi autori, i quali, senza il coraggio necessario per una esaustiva trattazione, si limitavano però a citare l'inutile come concetto creativo.
Heidegger, in "Sentieri interrotti" tratta il tema dell'inutile, attraverso il racconto di una parabola orientale. È inutile che la trascriva chi ha tempo e poco da fare se la vada a leggere. Semmai ve la sintetizzo. In estrema brutalità la parabola orientale narra di un albero secolare dalla forma così irregolare e nodosa, da risultare inutilizzabile per qualsivoglia destinazione. Proprio ciò ha reso la vita dell'albero lunghissima e ha donato lui il rispetto dei "vicini". Questa per me è l'essenza ultima dell'inutilità: l'inutilizzabile dura, sopravvive a se stesso, al "sistema" in cui è inserito, agli altri. L'importanza oggi dimenticata delle cose inutili è la forza della vita. L'albero della nostra storia è brutto, quindi non viene disegnato, fotografato, ammirato; è nodoso quindi non viene tagliato fatto diventare tavolo, sedia o armadio; non fa ombra, quindi non si presta per la siesta delle terribili estati tropicali europee. È lì semplicemente, semplicemente è. Venitemi a raccontare che l'essere non è. Che l'essere cede all'apparire. L'apparire cede al tempo, al consumo, all'utile. L'essere-albero no! Non cede che alla vita! Chi le resiste?!
Non annoio oltre con questo...
Ma l'inutile è asistemico per diversi altri motivi, quando troverò il tempo (ne avete qualche chilo, litro o cent?), e mi mancherà ancora uno scopo nella vita, mi dedicherò alla stesura di un qualche tipo di libro su di esso. Poi inutilmente cercherò un editore disposto a pubblicarlo...
Mi accorgo dell'inutilità della continua ripetizione nel testo del soggetto (inutile)... quindi continuo ad utilizzarlo imperterrito!! Dicevamo l'inutile...l'inutile come dono, come assenza di scambio mercantile. Anche qui potrei citare gli studi svolti dal "Mauss" istituto francese di studi sull'utilitarismo e l'anti-utilitarismo, ma le ricerche inutili vanno fatte di persona, debbono far perdere tempo, quindi se ve ne frega qualcosa andate a cercare. Quelli del Mauss asseriscono che ci sono moventi umani che sfuggono alla teoria dello scambio economico. Credo sia assodato per tutti che non vi può essere coerente ed esaustiva alterità rispetto al sistema-globale?!!? Ebbene questi poveracci provano a dire che non tutto nella nostra vita è governato dall'economia e dall'avere (Fromm). Concordo! Sono un poveraccio anch'io e come tale senza aver nulla da perdere asserisco, senza preoccuparmi delle smentite che qualcosa sfugge all'utile. Ci sono delle TAZ (zone temporanemaente autonome, vedi H. Bey) che dal loro apparire e scomparire mettono in momentanea crisi lo status quo. Poi tutto viene riassorbito, come in un videogame giapponese, dove vince sempre il più potente. Non potendo sussistere un eterogenesi totale delle menti, si possono creare dei black-out temporanei in cui il soggetto può varcare il confine dell'utile e ritrovarsi improvvismente nella gratuità dell'agire, del sentire, dell'essere. Non è facile, anzi per dirla tutta non so esattamente di cosa io stia parlando, ma l'essere-albero testimonia della possibilità. La guerriglia filosofica deleuziana è tutta in questo scontro, tra potere e non potere. Attenzione: non diverso potere, ma non potere. Non è battaglia campale è guerriglia!!
L'inutilità dell'esistenza: è un pre-requisito dell'esistenza inutile, è la genesi della stessa, un po' come il farsi cammello, leone e infine fanciullo nietzscheano. L'uomo (donna) non è un fine, ma un passaggio e come tale la sua utilità non è nel dire, fare, baciare, ma nell'essere punto e basta. Non c'è trascendente che tenga di fronte a ciò, non c'è fine escatologico, o anima. Soltanto l'affermazione dell'essere uomo (donna), la sua insulsa, avida, esistenza. A questo punto mi si presenta un interrogativo: e l'oltre-uomo? Non risponderò, tuttavia vi lascio con una affermazione dell'amico in spirito Friederich Nietzsche: "Di quanto fu scritto amo soltanto ciò che fu scritto col proprio sangue. Scrivi col sangue: e imparerai che il sangue è spirito. Non è facile comprendere il sangue degli altri, odio gli oziosi che leggono".
In conclusione provvisoria vi cito la colonna sonora dell'inutile attuale: Dave Brubeck, Time Out, scelta perchè stonata, fuori tempo, rispetto alle più blasonate produzioni politically correct!!

sabato 9 dicembre 2006

Genesi dell'Antropologia Teatrale

In tutte le culture sono stati fissati alcuni momenti che segnano la transizione da una tappa ad un’altra. Cerimonie che accompagnano la nascita di bambini, che stabiliscono l’entrata dell’adolescente nell’età adulta…


Vi sono tre aspetti che ogni cultura deve possedere:

  • la produzione materiale attraverso delle tecniche,
  • la riproduzione biologica che permette di trasmettere l’esperienza di generazione a generazione e,
  • la produzione di significati

Per una cultura è essenziale produrre significati. Se non li produce non è una cultura.

Definizione

L’Antropologia Teatrale è lo studio del comportamento scenico pre-espressivo che sta alla base dei differenti generi, stili, ruoli e delle tradizioni personali o collettive.
In una situazione di rappresentazione organizzata, la presenza fisica e mentale dell’attore si modella secondo principi diversi da quelli della vita quotidiana. L’utilizzazione extra-quotidiana del corpo-mente è ciò che si chiama Tecnica.
In genere la professione dell’attore inizia con l’assimilazione di un bagaglio tecnico che viene personalizzato.
L’Antropologia Teatrale non cerca di fondere, accumulare o catalogare le tecniche dell’attore, cerca il semplice: la tecnica delle tecniche. Con parole diverse apprendere ad apprendere.
L’antropologia teatrale indica un nuovo campo di indagine: lo studio del comportamento pre-espressivo dell’essere umano in situazione di rappresentazione organizzata.
Il lavoro dell’attore fonde in un unico profilo tre diversi aspetti corrispondenti a tre livelli di organizzazione:

> La personalità dell’attore, la sua sensibilità, la sua intelligenza artistica, la sua individualità sociale che rendono il singolo attore unico e irripetibile.
> La particolarità della tradizione scenica e del contesto storico - culturale attraverso cui l’irripetibile personalità dell’attore si manifesta.
> L’utilizzazione del corpo – mente secondo tecniche extra – quotidiane basate sui principi che ritornano transculturali.

La sola affinità che lega l’Antropologia Teatrale ai metodi ed ai campi di studio dell’antropologia culturale è la consapevolezza che, quanto appartiene alla nostra tradizione e ci appare come realtà, può invece rivelarsi un nodo di problemi inesplorati.
Una cosa importante da notare è che la comprensione storia del teatro è spesso bloccata o resa superficiale dal trascurare la logica del processo creativo, dall’incomprensione del pensiero empirico degli attori, cioè dall’ incapacità di superare i confini stabiliti per lo spettatore.


Principi che ritornano

L’Antropologia Teatrale è uno studio sull’attore e per l’attore.
Esistono fondamentalmente due tipi diversi di attore che noi chiameremo l’attore polo Nord e l’attore polo Sud.

L’attore Polo Nord è quello apparentemente meno libero. Modella il suo comportamento scenico secondo una rete ben sperimentata di regole che definiscono uno stile o un genere codificato.
Accetta un modello di persona scenica che è stato stabilito da una tradizione.
L’attore del Polo Sud non appartiene ad un genere spettacolare caratterizzato da un dettagliato codice stilistico. Non gli è fornito un repertorio di regole tassativela rispettare. Deve costruirsi da sé le regole sulle quali appoggiarsi.
Userà come punti di partenza le suggestioni che gli derivano di testi recitati, dall’osservazione del comportamento quotidiano, dallo studio dei libri e dei quadri, dalle indicazioni del regista. L’attore Polo Sud è apparentemente più libero.

Contrariamente a quanto appare a prima vista, è l’attore del Polo Nord ad avere una maggiore libertà artistica mentre l’attore del Polo Sud è invece facilmente prigioniero dell’arbitrio e di una eccessiva mancanza di punti di appoggio.

Quotidiano ed extra-quotidiano

Molti attori del Polo Nord posseggono una qualità di presenza che stimola l’attenzione dello spettatore quando fanno una dimostrazione tecnica. In tale situazione vi è un nocciolo di energia che cattura i nostri sensi.
Si può distinguere una tecnica quotidiana da una extra – quotidiana in quanto nel contesto quotidiano la tecnica del corpo è condizionata dalla cultura, dallo stato sociale, dal mestiere. Ma in una situazione di rappresentazione esiste una tecnica del corpo differente.

Le tecniche quotidiane del corpo sono in genere caratterizzate dal principio del minimo sforzo, cioè dal conseguimento della massima resa con il minimo impiego di energia.

Le tecniche extra – quotidiane si basano sullo spreco di energia.


In Giappone c’è una bella espressione che fa capire bene qual è l’ottica verso gli attori, questa espressione è : otsukarasama che vuol dire grazie per esserti molto stancato per me…
Le tecniche quotidiane del corpo tendono alla comunicazione, quelle extra – quotidiane tendono all’informazione: esse mettono in forma il corpo rendendolo artificiale/artistico, ma credibile.

C’è anche chi riconosce la bravura di un attore da come cammina…! Questo è il caso di Majerchol’d che affermava di riconoscere il talento di un attore dai piedi, dal dinamismo con cui poggiavano sul terreno e si spostavano.
Evocava per l’attore la camminata vigorosa, funzionale, non elegante del marinaio sul ponte della nave che baccheggia. Per uno dei suoi esercizi parlava addirittura di Estasi delle gambe!
Charles Dullin ripeteva sempre che la caratteristica di un principiante è di non saper camminare in scena.


La danza delle opposizioni

La rigida distinzione fra il teatro e la danza rivela una ferita profonda, un vuoto di tradizione che rischi continuamente di attrarre l’attore verso il mutismo del corpo, e il danzatore verso il virtuosismo.
Queste distinzione apparirebbe assurda agli artisti delle tradizione classiche asiatiche, così come sarebbe apparsa assurda ad artisti europei di altre epoche storiche come un giullare o un attore della Commedia dell’Arte o del Teatro elisabettiano.
Il corpo dell’attore rivela la sua vita allo spettatore in una miriade d tensioni di forze contrapposte. È il principio dell’opposizione. Nell’opera di Pechino il sistema codificato dei movimenti dell’attore si regge su questo principio: ogni azione deve iniziare dalla direzione opposta a quella verso cui si dirige.
Per il maestro balinese I Made Pasek Tempo la dote principale per un attore è la resistenza.

Incoerenza coerente e virtù dell’omissione

È interessante constatare come alcuni attori si allontanino dalle tecniche del comportamento quotidiano anche quando debbono compiere semplici azioni (stare in piedi, sedersi, camminare…)
Gli attori del Polo Sud quando arrivano al culmine della loro esperienza sanno modellare i propri muscoli governati di raffinati automatismi ella vita quotidiana.
Gli attori del Polo Nord invece non ricorrono alla verosimiglianza con il comportamento quotidiano.

Il Viaggio di Eugenio Barba

La vita è un viaggio, un cammino individuale, che non comporta mutamenti di luogo. Sono gli avvenimenti e il fluire del tempo a mutare una persona.
In ogni cultura ci sono cerimonie che scandiscono le tappe di questo viaggio, la nascita, l’adolescenza, l’età adulta….
Solo il passaggio dall’età adulta alla vecchiaia non è scandita da una cerimonia.
La transizione è cultura. Ogni cultura deve possedere tre aspetti:
Produzione materiale attraverso delle tecniche
La riproduzione biologica che trasmette l’esperienza da generazione a generazione
La riproduzione d significati

SATS

I danzatori e gli attori asiatici recitano e danzano con una piccola particolarità, hanno le ginocchia piegate. E sono le ginocchia a contenere il Sats, l’impulso di un’azione che ancora si ignora. (posizione di base di molti sport, tennis, pugilato…).
Il principio dell’alterazione dell’equilibrio.
Questo continuo vestirsi e svestirsi dalla tecnica creava una tecnica extra quotidiana.

Il teatro mi permette di non appartenere a nessun luogo, di non essere ancorato a nessuna prospettiva, di rimanere in transizione.

L’antropologia teatrale è lo studio del comportamento scenico, per –espressivo che sta alla base dei differenti generi, stili e ruoli.
La presenza fisica mentale dell’attore si modella secondo principi diversi da quelli della vita quotidiana.
L’utilizzazione extra – quotidiana del corpo mente è ciò che si chiama tecnica.
Così la presenza dell’attore, il suo BIOS scenico, è in grado di tenere l’attenzione dello spettatore prima di trasmettere qualsiasi messaggio.
Il BIOS scenico permette di apprendere ad apprendere

L’a.t. è lo studio del comportamento pre-espressivo dell’essere umano in una situazione organizzata, per l’attore ci sono due diverse categorie in cui oriente e occidente non sono da separare, non teatro orientale e occidentale, ma…
POLO NORD è quello apparentemente meno libero, ma ha maggiore libertà artistica
POLO SUD è caratterizzato da un codice stilistico, non gli è stato fornito un repertorio di regole tassative. Inizia con la sua personalità è Apparentemente + libero, Non ha punti d’appoggio nella recitazione.

Teatro estraneo / camminare in scena

Etienne Decroix (mimo) un attore deve mantenersi lontano da contaminazioni stilistiche, proibiva ai suoi attori, di accostarsi a forme teatrali
Le arti si somigliano nei loro principi, non le loro opere
La tecnica quotidiana dell’equilibrio tende verso un equilibrio di lusso
Louis Jouvet bisogna imporsi delle regole semplici da non tradire mai
Stanislvsky spiega i diversi modi di appoggiare per terra
Mejerchol affermava di riconoscere il talento di un attore da come camminava in scena

Le differenti culture hanno diverse tecniche del corpo, se si cammina o non con le scarpe, se si portano pesi o no in testa. Ciò fa parte del Bios scenico, al quotidiano si contrappongono delle tecniche extra quotidiano.

Tecniche quotidiane ……………. Minimo sforzo
Tecniche extra – quotidiane ………….. Massimo sforzo
Mettono in forma il corpo rendendolo artificiale ma credibile.

· In Giappone gli spettatori ringraziavano gli attori con “Otsukama” ti sei molto stancato per me
· Gli uomini vestiti di nero recitano l’assenza KOKKEN ( gli intenditori affermano che è più difficile essere Kokken che attore).
· L’attore Kabuki cambia movimento alle gambe e piega le anche, innesca la vita dell’attore con la sua camminata, anche nel teatro balinese, dove l’attore è obbligato a divaricare le gambe
· In scena si impara a camminare ex novo in scena.

venerdì 1 dicembre 2006

No Copyright

[No Copyright per usi non commerciali, deve sempre essere riconosciuta la paternità dell’opera.]

di Marco Caponera

Copyright e No Copyright
Questo scritto intende inserirsi nell’attuale dibattito su copyright, copyleft [1] e no copyright, animato da numerosi interventi di esperti di informatica e recentemente anche da autori di letteratura e saggistica.Iniziamo da alcuni chiarimenti sintetici per passare successivamente al vaglio critico di ciascuna affermazione.- L’assenza di diritto d’autore in materia di editoria cartacea e telematica non è: dannosa per l’autore stesso, poiché il copyright non esiste per tutelare l’autore ma altri soggetti.- Non è: copyleft, o almeno non necessariamente, perché non è necessario dotare il proprio lavoro di una speciale licenza per permettere gli usi non commerciali, basta semplicemente non chiedere il rispetto del copyright.- Non è: opera collettiva, o non soltanto. Conta poco ai fini del copyright il fatto che siano uno o più autori a voler abolire detta norma per i propri testi, la scelta del no copyright non è scelta collettiva, ma personale.- Non è open source[2]: perché i meccanismi che sono alla base della cooperazione informatica per la realizzazione di software sono differenti da quelli che portano alla realizzazione, anche collettiva, di un libro o di una produzione artistica.Molti, alcuni in buona fede, credono che si debbano imporre dei paletti alla libera circolazione delle scritture e delle idee. Ciò a mio avviso è errato e per una lunga teoria di motivi tutti facilmente argomentabili, vediamone alcuni:
1) Chiunque pensi qualcosa lo fa all’interno di una cultura e a partire dal proprio bagaglio di conoscenze. Cultura e conoscenza derivano dalle idee e dalle azioni di altri, a prescindere dal diritto d’autore sulle stesse. Ciascuno deriva da altri il proprio pensiero, anche se indirettamente. Direttamente derivato, invece, è il bagaglio di strumenti letterari che l’autore usa nei suoi testi: lo stile, i riferimenti, le citazioni, le suggestioni che utilizza fanno sempre parte di una tradizione dello scrivere e del pensare, anche quando l’intenzione è l’abbattimento di questa tradizione, il riferimento è comunque presente come avversario cui ci si confronta.La citazione in particolare è un vero e proprio “furto” autorizzato. Non ci dovrebbe poter essere copyright di sorta per interviste, antologie, letture critiche perché il debito nei confronti degli autori coinvolti è troppo grande per essere eventualmente risolto attraverso il pagamento di pochi centesimi di royalties. Interpretare le idee di qualcuno è già “rubarle”. Non che io abbia qualcosa contro questi “furti” s’intende, purché si abbia l’onestà intellettuale di riconoscerlo.
2) L’autore sa, quando scrive, che le proprie idee saranno lette. La preoccupazione di qualunque autore onesto non è quella di vendere migliaia di copie, ma di avere migliaia di lettori. A questo scopo l’assenza di un copyright non è l’assenza di qualcosa, perché l’autore non è affatto tutelato dal copyright. Il no copyright è una scelta che libera dall’impostura della “proprietà” intellettuale. Un “diritto” che può decadere non è tale. È soltanto uno strumento di protezione economica, non intellettuale. Questo testo è privo di copyright per usi non commerciali, ma chiunque, dopo questa pubblicazione, vorrà confrontarsi su questo tema dovrà, se è onesto, prendere atto delle posizioni espresse in queste pagine, se non lo fa l’eventuale copyright, che io avessi voluto applicare, non avrebbe aiutato di una virgola. E tanto meno mi avrebbe consentito di controllare l’uso di questo scritto da parte dell’editore. Ora è vero che chiunque può utilizzare questo scritto nei modi che riterrà opportuni, ma non potrà prescindere dal riconoscere al sottoscritto la paternità dei contenuti, poiché Marco Caponera, quando leggerete questo testo, lo starà facendo circolare quanto più gli è possibile per far conoscere le proprie idee mettendole in connessione con quelle di altri.Il copyright, proseguendo, non protegge l’autore, poiché non riesce a proteggerlo nemmeno dal proprio editore, primo interlocutore di chiunque scriva qualcosa. Quando scrissi “Transgenico NO” per la Malatempora Editrice di Roma, proposi di inserire la dicitura “No Copyright”, non “copyleft” una definizione post moderna che non amo. Il no copyright mi da l’impressione di un opposizione a un modello di pensiero dominante e calcolante, il copyleft mi sembra la concessione di una “grazia” di cui invito i lettori a fare a meno.L’editore nel colophon del libro spiegò l’assenza di copyright con la motivazione che i testi erano frutto di lavoro collettivo. Un po’ per mettersi la coscienza a posto nei confronti dei testi di altri che aveva utilizzato in alcuni box d’approfondimento, un po’ per frainteso significato della scelta ideologica che stavamo facendo. Scrivo questo per dovere nei confronti di chi lesse quel libro e lo ritenne privo di copyright per i motivi suddetti, anziché per il fatto che l’autore del 90% del testo non volesse il copyright. Ricordo però a lato di questo discorso che mi fece un piacere enorme vedere in occasione di una presentazione nella città di Firenze che gli squattrinati studenti di Filosofia erano tutti presenti chi con il libro sotto braccio, chi con le fotocopie dello stesso. Se un autore è onesto ha piacere che le proprie idee circolino, se non lo è si prepari perché soffrirà le pene dell’inferno, poiché il copyright non lo tutela in nessun modo.
3) Ma perché non lo tutela? Presto detto, perché la definizione “diritto d’autore” è demagogica, la definizione corretta sarebbe “diritto d’editore”.La definizione che emerge, ad esempio, analizzando l’ultima riforma legislativa italiana in questo settore evidenzia chiaramente come beneficiario, e fine, della riforma l’editore (o la casa discografica, o l’azienda di software) e soltanto questo.Come ogni autore sa bene è difficilissimo sapere dall’editore quante copie sono state vendute del proprio amato libro. Questo perché, il più delle volte, il compenso a lui spettante è stabilito in percentuale rispetto al venduto. Fingere che non si sia venduto è il modo migliore per frodare l’autore. Ma, qualcuno dirà: l’autore ha un arma infallibile per verificare i dati di vendita, la SIAE. Certo, la SIAE vende dei contrassegni agli editori (si usano sempre meno perché troppo cari) da apporre su ciascuna copia, al fine di verificare ogni passaggio fatto dal libro, dall’editore al compratore finale. Spesso però accade che nemmeno la SIAE sia aggiornata sui dati, e quando li ha funge soltanto da base statistica, non operativa. Sarà l’autore che con i dati SIAE in mano dovrà andare a rivalersi dall’editore. Il più delle volte, insomma, se non si vuole interrompere precocemente una carriera da scrittore, si deve fare buon viso a cattivo gioco, ingoiando il boccone amaro. Il tutto sotto l’austera e imparziale egida del diritto d’editore!
4) La presente legge punisce chi copia alla stregua di chi trae un utile nel farlo. Ciò è ridicolo, preferisco essere “derubato” che essere responsabile di aver mandato in tribunale uno studente perché non aveva i soldi per comprare un mio libro.Certo non si può regalare un libro a chiunque ne abbia bisogno, ma sicuramente si può auspicare fortemente che ciascuno lo fotocopi per sé e per coloro che possono essere interessati. Questo meccanismo non manderà mai in crisi il sistema editoriale, non quello basato sulla cooperazione, sulla calmierazione dei prezzi e sull’antagonismo nei confronti di un modello politico-economico-culturale, che non appartiene alla maggioranza della popolazione. Poiché coloro che acquistano un libro di questo tipo sanno che i propri soldi stanno andando in una direzione sana. Purtroppo non danneggia nemmeno l’editoria di costo elevato (e scarso livello culturale), perché avere le fotocopie del pregiatissimo cartonato dell’ultimo libro di Bruno Vespa è poca cosa, e sicuramente il gentile signore che intenderà acquistarlo per farne omaggio - mai per leggerlo - non troverebbe vantaggioso per la sua immagine il far dono di un mazzetto di fotocopie.
Copyleft
Tra i fautori del copyleft ci sono alcuni critici nei confronti del no copyright. A mio avviso c’è molta confusione su questi temi e la confusione è dovuta soprattutto ad un atteggiamento intellettuale. Molti pensano che anziché puntare il dito si debba “lottare dall’interno”, ma così facendo non riescono a rendersi conto che hanno iniziato a lottare con le stesse armi e con le stesse strutture concettuali del potere cui intendevano precedentemente opporsi o contestare. La struttura delle licenze[3], propria del copyleft, ad esempio, rappresenta un’istituzione che intende sostituirne un’altra, ma la storia ci ha insegnato molto bene cosa accade quando a un potere se ne è voluto sostituire un altro. Gli errori che tale impostazione corrotta porta con sé sono almeno di due tipi:- Il primo è la confusione del concetto di “proprietà” intellettuale con quello ben differente di “paternità” (o “maternità”, fa lo stesso) intellettuale”. Questa distinzione mostra come siano differenti i retroterra ideologici delle due definizioni: la prima mostra apertamente i suoi legami con mentalità economicistiche e calcolanti, il secondo invece coglie il dato di fatto sulla paternità (o maternità) di un opera. Faccio un esempio: se io oggi volessi inserire in un mio testo, appropriandomene, il concetto di oltreuomo (meglio noto forse come superuomo) di F. Nietzsche, a rigor di normativa internazionale in materia di diritto d’autore potrei farlo, poiché sono trascorsi più di 70 anni dalla morte dell’autore. Ma questo non mi metterebbe comunque al riparo dall’essere messo in ridicolo da tutta la vasta comunità dei conoscitori del pensiero di Nietzsche. E dire che io potrei ritradurre, ristampare, estrapolare dei passi senza che nessuno mi possa imputare alcunché. Ancora tutto ciò non mi eviterebbe il pubblico scherno, se non facessi un lavoro all’altezza dell’autore e intellettualmente onesto. Questo esempio mi pare che illustri meglio di mille dotte metafore ciò che intendo per paternità e proprietà delle idee. Se un diritto può decadere allora è evidente che l’intento non è quello di sancire definitivamente dei paletti intorno alle opere, ma semplicemente di determinarne lo sfruttamento economico da parte di chi detenga il copyright sulla stesse, e più spesso di quanto s’immagini non è l’autore. La paternità invece ci sarà sempre e sarà sempre dell’autore a prescindere dalla forma con cui la si vuol tutelare, copyright, copyleft o no copyright. Il problema della proprietà dell’opera si può risolvere, a mio modo di vedere, con una semplice formula da anteporre al testo, magari nello spazio del colophon ed è: no copyright ad esclusione degli utilizzi per fini di lucro (o commerciali che dir si voglia). Se è chiara la distinzione di cui sopra allora si potrà capire perché sono inutili lunghe e argomentate licenze che si pongono l’arduo compito di tutelare qualcosa che non può essere tutelato, lasciando scoperto qualcosa che può essere invece tenuto in considerazione.- Il secondo tipo è la presunzione di aver inventato qualcosa di nuovo.Mi spiego meglio. Questa epoca, ma forse tutte, è piena di soggetti che pensano di aver inventato qualcosa, semplicemente perché non informati che quel qualcosa esisteva già, magari in forme leggermente differenti, a loro insaputa. Ebbene, i fautori del copyleft sarebbero gli inventori della condivisione dei saperi, che appunto il copyleft avrebbe liberato dalle strette maglie del diritto d’autore. La presunta innovazione del copyleft starebbe nella possibilità di far circolare le idee e di perfezionarle collettivamente grazie alla possibilità data all’autore di inserire, al posto del solito copyright, una licenza disegnata ad hoc per consentire questi usi, generalmente escludendo i fini commerciali. Credo fortemente che ci troviamo di fronte a soggetti che hanno un retroterra meramente informatico, altrimenti non avrei scuse, poiché chiunque sa che ad aver inventato la libera circolazione delle idee e il reciproco intervento per migliorarle sono le “culture orali”. Altro che Internet, software e file sharing, la libera circolazione delle idee esiste da quando l’uomo, e la donna, hanno iniziato a raccontarsi delle storie vere o di fantasia, poco conta. Chiunque conosca un Mito o abbia ascoltato il proprio nonno raccontare storie intorno a un fuoco sa che in ciascun racconto c’è una parte fedelmente riportata e un’altra fatta propria e rielaborata da chi racconta. In tutti i Miti ci sono letture e interpretazioni che differiscono anche di molto, tanto che ancora oggi si studiano approfonditamente per svelarne gli intimi segreti. Tutto quello che oggi contraddistingue la cooperazione informatica o letteraria (questa in misura certamente minore) è pratica millenaria.Se si dice che l’open source e il copyleft aiutino a combattere il monopolio informatico di Bill Gates sono d’accordo, se mi si vuole convincere del fatto queste forme siano indispensabili per la libera circolazione delle idee trovo che si stia facendo della demagogia. Insieme questi due tipi di errore forniscono un’idea distorta e controproducente dell’idea di protezione, creazione, condivisione e collaborazione intellettuale. Non vorrei apparire pedante nel riportare alla mente addirittura il Mito e la cultura orale, ma sarebbe ora che non si usassero le stesse armi del nemico che si combatte per affermare delle verità che vere non sono.Open Source e No copyrightConcludo questo flusso di idee sul tema marcando una distinzione che non vuol essere una presa di distanza, ma sicuramente vorrebbe essere una precisazione di merito su cosa è l’informatica e cosa è la letteratura e la parola scritta. La carta stampata in generale non può, a mio avviso, acquisire tout court le argomentazioni e gli strumenti che gli avversari del copyright si sono dati in ambito informatico. Poiché sono due cose completamente differenti. I programmatori cooperano per realizzare un software che se realizzato da uno soltanto porterebbe con sé mille difetti e scarsa utilità. Quindi la collaborazione incentivata e auspicata dall’open source funziona a meraviglia, molto semplicemente però non è applicabile ai processi di pensiero e artistici.Il “fine” software è differente dal “fine” saggio, poesia, racconto, novella, ecc. Non è sufficiente far leggere ad un altro le proprie idee perché questi le “migliori”, le potrà certamente modificare, ma difficilmente potrà eliminare dei bug, ammesso che ve ne siano. Diversamente la logica di molti software definiti “freeware” si avvicina moltissimo alla logica del no copyright poiché stabilisce chiaramente che l’utilizzo potrà essere gratuito e libero a patto che il determinato software non venga utilizzato per fini commerciali, in quel caso spesso è previsto un pagamento, che se non effettuato genererà una violazione delle clausule per l’uso.Fintanto quindi che i software freeware e open source toglieranno mercato alle multinazionali dell’informatica non potremo che caldeggiare ogni nuova iniziativa, se invece si vuole dare una scossa generale a tutto il mondo del copyright ci si dovrà sedere attorno a un tavolo, anche virtuale, per discutere di analogie ma soprattutto di differenze, riconoscendo a tutte le parti in causa autonomia di giudizio e di movimento. Con i “minestroni” non si affrontano i problemi, al più ci si mette la coscienza a posto. Infine, e non vuole essere né la sintesi né la morale di questo scritto, auspico che nel futuro siano sempre più gli autori che decideranno di avere a cuore le proprie idee e i propri lettori-interlocutori e non soltanto il proprio portafogli, dicendo NO AL COPYRIGHT.
[1] Per ulteriori informazioni sul mondo del copyleft si rimanda al sito: http://www.copyleft-italia.it/.
[2] Per ulteriori informazioni sul mondo dell’open source si rimanda al sito: http://www.opensource.org.
[3] Si veda a questo proposito il sito: http://www.creativecommons.org/.

martedì 28 novembre 2006

Scelte...

La musica ci segue ovunque, in qualsiasi luogo e nella maggior parte dei casi fa da cornice a tutte le attività umane. La sentiamo come uno sfondo sonoro al quale è molto semplice fare l'abitudine e al quale non prestiamo che un orecchio distratto. Senza renderdercene conto la stiamo "consumando" come un qualsiasi oggetto "usa e getta" che ci viene imposto dalla moderna società capitalistica e soprattutto consumistica. Si è persa la capacità di critica, ma soprattutto la capacità di scelta. Uso il passato perchè lo spirito critico, in un certo senso, i nostri avi ce lo avevano infatti molti secoli fa l'unico modo per acoltare musica era scendere in piazza e ascoltare il giullare o il girovago che, innalzando il proprio piccolo palco su una strada, piaceva di più. Ora non è necessario scendere in piazza per ascoltare musica visto che basta accendere la radio o la tv che veniamo bombardati da musica di tutti i tipi o quasi. Ma il problema è: la ascoltiamo veramente? Scegliamo la nostra musica oppure ne subiamo l'imposizione dei mass-media che scelgono per noi? Riusciamo a dedicarle del tempo così come si può fare per un buon libro oppure la musica è la colonna sonora della nostra doccia quotidiana?Bisogna saper scegliere ciò che ascoltiamo e ciò che conta è saperla ascoltare la musica.
Charlie Sheet

Capitalismo e Musica

Le case discografiche si appropriano di una forma d'arte come la musica modellandola per renderla accessibile al pubblico intero che è già stato educato dai mass-media ad un certo tipo di ascolto immediato e di facile comprensione.La produzione discografica è niente meno che una produzione capilastica in cui la musica diviene un prodotto da consumare nel breve periodo (in modo da esserne stufi dopo poco) e quindi riciclata con altra.L'individuo musicista per poter mostrare le proprie creazioni deve scendere ad un compromesso con il produttore che trasformerà la sua arte in prodotto.Se negli anni 70 la musica era un valore a se', un bene prezioso che non aveva un valore di scambio, se non il costo di un vinile o di un concerto; ora la musica, avendo un prezzo, è un oggetto da consumarsi preferibilmente entro una data scadenza.Il proprietario di una canzone non è il musicista, di colui che la crea, che la dipinge, ma di colui che la produce ed è in ciò che la casa discografica si appropria di un arte.
Charlie Sheet

Musica e Immagine

Il significato della parola IMMAGINE può assumere diversi aspetti. La si può prendere in considerazione dal punto di vista giuridico, cinematografico, religioso, fisico ma l'aspetto che meglio si lega alla musica è dal punto di vista psicologico; in questo contesto l'immagine e' considerata come espressione sensoriale ed intellettuale che si evidenzia nelle azioni e nelle parole, rientrando nell'ambito della filosofia, dell'arte (e quindi della musica) in genere.La MUSICA, intesa nella mia analisi, è l'arte di fondere, scambiare, miscelare tra loro i suoni in un insieme armonico e unitario. La musica si può suddividere in classica, in leggera ed in extra-colta.La musica LEGGERA identifica la musica di intrattenimento, dello svago, che è possibile ascoltare (e ballare) in discoteca come è possibile cantare sotto la doccia. L'ascolto non richiede nessun tipo d'attenzione, quindi di facile fruibilità e soprattutto di facilissimo "spaccio".La musica CLASSICA che identifica la musica dei grandi autori, che non si consuma, e' sempre viva, autentica e originale nel tempo, difficile da apprezzare perche' richiede attenzione.La musica EXTRA-COLTA identifica un genere che non e' possibile inserire all'interno della musica leggera perche' di non facile fruibilita' e anche difficile da ascoltare, complessa ma più diretta della classica.Se la musica classica può essere considerata come arte a se, la musica leggera essendo più diretta è un vero e proprio linguaggio che può divenire più semplice, accessibile ed ancor piu' diretta anche grazie al contorno fornito dall'immagine.Il momento storico che lega la musica e l'immagine può esser fatto risalire alla metà degli anni 50: data che sancisce la nascita del rock'n'roll e della televisione. Il RnR ha rappresentato la rottura tra America perbenista ed America ribelle e la TV e' stato il veicolo ideale che ha permesso di rendere il movimento di Elvis Presley, Jerry Lee Lewis ecc. oltre che un fenomeno musicale, un fenomeno di costume, cultura e soprattutto di moda.Il rock'n'roll si evolve e assume connotati sempre più seriosi, anche se rimane un linguaggio immediato. Gli USA e l'Inghilterra, attraverso il Rock prima inventano poi disfano fenomeni di costume e di moda. La musica perde dal punto di vista compositivo (rispetto ai generi precedenti, Blues, Jazz) ma l'impatto sul pubblico e' devastante, specialmente per i giovani che sono stati (e sono) sono gli utenti principali a cui si rivolge il rock.Il rock si e' trasformato, e' evoluto ma nella maggior parte dei casi e' stato sempre legato ad un'idea d'artista a sua volta legata all'immagine che esso forniva di se. L'immagine ha permesso a tutti i gruppi rock di guadagnare fette di pubblico e alle case discografiche di guadagnare fette di mercato. Il connubio ha permesso di creare un modo di comunicare diverso, che coinvolgeva il pubblico non solo nell'ascolto, ma anche a livello visivo: e' possibile affermare che la combinazione tra musica e immagine fornisce un prodotto vendibile immediatamente, in altre parole qualcosa che si adatta alla perfezione all'odierna società capitalistica.La combinazione di musica e immagine fornisce un prodotto vendibile e consumabile ed infatti nella musica leggera italiana i testi sono semplici e rivolti alla maggioranza del pubblico (devono accaparrarsi sia le famiglie sia i giovani), sono immediati, affrontano tematiche sentimentali ed hanno scarsi riferimenti al sociale. La composizione musicale è semplice, melodica, orecchiabile, l'aggettivo che più le si addice è sanremese. Il look dell'interprete deve fornire un'immagine rassicurante di se, genuina, deve entrare nelle case della gente, quindi l'abbigliamento e' adeguato e alla moda.A differenza, il rock, applica testi impegnati, attenti al sociale ed usa diversi tipi di linguaggi (visionari, psicologici, criptici e allegorici). Nella composizione si cura l'innovazione, le sperimentazioni ed il ritmo. A fare d contorno ci sono i videoclip, i concerti che sono dei veri e propri show, cioe' spettacoli a 360 gradi. L'abbigliamento dell'artista e' eccentrico e stravagante.Attualmente le case discografiche curano molto l'aspetto dei gruppi o dei cantanti che da loro dipendono, basti pensare a come sono pubblicizzati i dischi o i concerti oppure come viene curata l'immagine di un leader del gruppo. Ciò offusca i contenuti e la musica come arte, quindi sta nella sensibilita' del pubblico nell'oculare le scelte nell'ascolto (prima di tutto) e nell'acquisto in seguito.
Charlie Sheet