Il non detto
La comunicazione scientifica in gran parte del globo terrestre, fortunatamente non in tutto, avviene attraverso i mezzi di comunicazione di massa, i quali si sostituiscono alla conoscenza diretta anche a ciò che attiene all’ambito alimentare, generando una forma di cultura non più im-mediata, tradizionale, culturale, ma al contrario frutto di variabili di mercato e tecnologiche che, in epoca di globalizzazione, si susseguono e si sostituiscono a ritmi vertiginosi, lontani da una forma di contatto effettiva con interessi e attitudini propri dei soggetti che subiscono queste informazioni senza una reale possibilità di sottrarvisi. L’informazione, nonostante il ricorso ossessivo alla tecnicizzazione, o al contrario proprio a causa di essa, non è in grado di descrivere le disarmonie cui la società sta andando incontro, quindi indicare i modi o più semplicemente gli ambiti ove correre ai ripari. Disoccupazione di massa, desertificazione, buco dello strato d’ozono, effetto serra, fame nel mondo, nazionalismi xenofobi, terrorismo, alimenti transgenici, [Cfr. M. Caponera, Transgenico NO, Roma, Malatempora Editrice, 2000.] clonazioni, sono soltanto alcune delle manifestazioni evidenti del sottosviluppo sociale e materiale, che il cosiddetto progresso capitalistico incondizionato potrà produrre da qui a non molto, senza contare gli effetti irreversibili già avviati e non più arrestabili. Le informazioni, infatti, non agiscono nel vuoto: esse riguardano qualcosa e si rivolgono a qualcuno; esse non esercitano un’influenza in astratto, bensì su donne e uomini che pensano e agiscono. È importante, inoltre, notare che le maggiori capacità tecniche di comunicazione, dovute all’inseguimento costante del ritrovato tecnologico superiore alla testata concorrente, portano a capacità di manipolazione sempre maggiori. Al contrario, invece, non portano necessariamente ad un aumento della qualità dell’informazione, poiché padroneggiare la tecnologia non è cosa immediata, né gratuita, così a farne le spese come al solito è la qualità a vantaggio della quantità, unica ad essere tecnologicamente garantita.
Il non detto in realtà può essere comunicato; non è un problema tecnico ma di linguaggio. La difficoltà di comunicazione scientifica non sta tanto nel problema della comunicazione dei concetti ma piuttosto nella volontà deliberata di chi fa informazione di eludere, quindi non palesando, quelle che sono le problematiche, gli errori, i limiti di una scienza che si suppone esatta ma che nella pratica appare piuttosto approssimativa. Il non detto è ciò che non deve essere comunicato poiché lederebbe in maniera significativa l’immagine della scienza, dello scienziato e delle multinazionali impegnate nella ricerca.
Spettacolarizzazione della scienza
I media forniscono un’informazione tecnico-scientifica scadente e filo aziendale, per via della sudditanza dovuta alla dipendenza dalle inserzioni pubblicitarie, I dossier divulgativi d’argomento scientifico prodotti dai media risentono significativamente:
1) della convinzione da parte degli addetti ai mass-media che i fruitori dell’informazione siano una massa di analfabeti incapaci di decodificare messaggi che contengono argomentazioni scientifiche e a cui ci si deve rivolgere per metafore, immagini e, a volte, onomatopee;
2) della necessità dei media di spettacolarizzare gli argomenti in esame per attrarre maggiore ascolto possibile;
3) del fatto che, nessuno escluso, sopravvivono grazie ai contributi degli inserzionisti, i quali molto spesso sono i protagonisti della programmazione stessa, quindi è praticamente impossibile per qualunque testata giornalistica essere obiettiva e imparziale quando ciò comporti un danno di immagine per i propri inserzionisti. In questo modo grazie alle motivazioni sopra esposte, risulta chiaro che i mezzi di informazione di massa non sono e non saranno mai dalla parte di coloro i quali dicono di servire. Schematizzando: essi non fanno informazione puntuale, seria e obiettiva.
La comunicazione si nutre di tecnologia, come la tecnologia si nutre di comunicazione. Questo binomio rappresenta la chiave di volta di tutto il sistema di produzione – di sovrapproduzione - che ha preso a giovarsi considerevolmente del potere del linguaggio pubblicitario, inteso non solamente come forma di promozione di prodotti determinati, bensì come insieme di istituzioni spettacolari di ampio respiro, atte a manifestare e impostare la consapevolezza e la conoscenza diffusa del mondo merceologico totale. L’ideologia del consumo non si forma soltanto negli spot mediatici, ma abbraccia ogni branca del sapere e del vivere, in maniera tale da coprire tutte le manifestazioni e i luoghi possibili del vivere associato. Per dirla con Guy Debord l’ideologia spettacolare consuma la città nella campagna e viceversa; essa determina i modi e i termini sia della vita associata cittadina sia della vita appartata delle campagne facendone luoghi-merce, e contemporaneamente luoghi-consumo intercambiabili, li priva dello status materiale e li divizza. Così impostato geograficamente il merceologico linguistico detiene il controllo e attraverso il consumo raggiunge il fine economico [Cfr. G. Debord, La société du spectacle, 1967, trad. it., Milano, Baldini e Castoldi, 1997]. Gli individui sono mantenuti nella presunzione di controllare l’uso che fanno del proprio consumo (anche alimentare) e del proprio linguaggio, facendo dell’autoregolazione il baluardo contro la sopraffazione da parte del sistema economico-globale. La consapevolezza di questa situazione contraddittoria sarebbe la prima manifestazione del controllo totale e della sua affermazione universale, poiché al contrario di quanto possa pensare di sé un qualunque cittadino del mondo occidentale: qualcun altro, nel momento in cui lui pensa se stesso, l’ha già pensato e trasformato in consumatore passivo indicandogli il modo in cui guardarsi, sentirsi, riconoscersi e alimentarsi. Il nodo della questione è che la propaganda ideologica contemporanea non inizia e non finisce in corrispondenza di uno spot o di una campagna elettorale: essa ha radici e forme di controllo molto più profonde che derivano essenzialmente dal tipo di sistema economico cui fa riferimento e che, per forza di cose, sostiene.
Il controllo delle masse da un punto di vista geografico-mediatico avviene in maniera concentrata e diffusa nello stesso momento, amplificando a dismisura le potenzialità di entrambe le modalità d’azione. La gestione della popolazione, delle sue scelte e delle sue aspirazioni, oggi è concertata in maniera complessa e combinata, e non casuale come avveniva agli inizi del secolo quando, come ricorda Debord, negli stati pseudo-comunisti si effettuava una forma di controllo concentrata e, al contrario, nei paesi detti occidentali, il controllo era praticato con metodi diffusivi [Cfr. G. Debord, Commentaires sur la société du spectacle, 1988, trad. It, Milano, Sugarco, 1990]. Non è assolutamente ammissibile che esistano, in epoca globale, forme d’arte, d’aggregazione sociale e di alimentazione diverse da quelle istituzionali, ma queste ancora oggi seppur ghettizzate e fortemente marginali sussistono, esempi lampanti ne sono gran parte della letteratura latino-americana che ha un suo modo di vedere e interpretare il vissuto quotidiano e le sue manifestazioni politiche in perfetta antitesi e in aperta polemica con gli intenti del mondo civile; sul versante sociale troviamo per esempio popolazioni indigene quali quelle messicane – per tacere di molte altre - che rifiutano forme di organizzazione e sfruttamento dell’uomo da parte del suo simile, poiché vivono sulle proprie spalle e su quelle dei propri figli tutto il potere dello sviluppo del mondo occidentale e del sottosviluppo che invece ad essi è stato imposto. Nel manifestare il proprio dissenso e il proprop antagonismo, tuttavia, non si limitano a combattere le multinazionali dello sfruttamento sul loro stesso terreno, ma offrono un esempio di organizzazione sociale e politica non gerarchica fondata sul principio della cooperazione, della solidarietà, dell’autonomia individuale e del pacifico sviluppo delle attitudini umane, offrendo così un esempio di civiltà ben più alta di quella raggiunta dagli squadroni della morte al soldo di Stati Uniti e Messico che, purtroppo per loro, dall’esistenza e dalla sopravvivenza di questi popoli traggono solamente perdite economiche. Non ci sono rivoluzioni tecnologiche in atto, non esiste ancora un dominio completo della macchina sull’uomo, bensì l’integrazione delle esigenze di questo con le esigenze dell’economia, che ne organizza le forme. Quando da questo processo congiunto tra locale e generale si arriverà a conoscere una sintesi allora potremo parlare in maniera esaustiva di società globalizzata. Al momento esclusivamente la fantomatica new-economy (finanza, reti telematiche, biotecnologie) può fregiarsi dell’aggettivo “globale”, tra tutte le forme di contatto e d’associazione umane.
Blackout comunicativo
Gli scienziati rifiutano di riconoscere come interlocutrici figure non tecniche, giudicandole incompetenti. Gli scienziati insistono ancora oggi nel non volersi occupare di etica o politica, cioè delle ripercussioni dei loro esperimenti-prodotti di laboratorio nella realtà e quindi nell’ecosistema. Questi due opposti logici generano un clima di completa incomunicabilità da parte degli scienziati nei confronti del resto del mondo che invece dovrebbe rappresentare a rigor di logica il vero e proprio scopo della scienza. Chi si avvantaggia di queste logiche paradossali naturalmente è il “mercato”, da sempre avversario di uno sviluppo eco-compatibile e quindi di una visione seria di “progresso” che implichi un miglioramento della condizione esistenziale reale della specie umana e non ultimo dell’intero pianeta. L’anacronistica declinazione di responsabilità cela il sinistro intento di tenersi e godere di uno spazio d’autonomia politica nei confronti del lavoro di laboratorio. Quest’ultimo però, purtroppo, non esiste svincolato dalla realtà esterna, o per meglio dire le sue regole sono autonome e fondate fintanto che i prodotti non entrano in contatto fisico con il mondo esterno. I laboratori sono luoghi asettici che nulla hanno a che fare con la realtà dell’ecosistema, con il suo complesso equilibrio di forze. Un’invenzione biotecnologica che, ad esempio, si comporti perfettamente in ambiente di laboratorio, non garantisce che questo si possa ripetere una volta immessa in ambiente naturale, anzi il più delle volte, come è già accaduto con il morbo della “mucca pazza” l’ambiente rigetta la modifica forzata con conseguenze che possono divenire catastrofiche. Una posizione così comoda per lo scienziato e al tempo stesso così pericolosa per il mondo intero non la si è mai garantita nella storia a nessun soggetto scientifico, politico, sociale, o medico.
Concludendo, oggi viviamo uno scontro di “civiltà” tra ideologia scientifica e ideologia religiosa. Da un lato l’onnipotenza dello scienziato senza freni etici o politici, dall’altro l’onnipotenza di Dio unico artefice della creazione e, in quanto tale, non imitabile. L’unico confronto che si vuole venga riconosciuto è questo, su questo scontro si sono costruite tutte le ultime battaglie mediatiche di risalto internazionale. Anche in occasione di referendum politici sulla modificazione di alcune leggi dello stato italiano in materia medico-scientifica le uniche posizioni ammesse furono queste. La politica declina le sue responsabilità schiacciata tra le multinazionali farmaceutiche, e biotech, e le posizioni delle religioni intransigenti sui principi cardine dei propri dogmi. Come se non fosse possibile ragionare in materia di scienza con dettami derivanti da un approccio politico-sociale alla questione. Come se la politica stessa non avesse più senso in questo panorama. Come se valesse soltanto la “morale” di chi riesce a imporre la propria morale. Questa è una terribile falsificazione della realtà, una nefasta semplificazione, che intende far interiorizzare a tutti che queste siano le uniche ideologie ammesse a parlare. Non basta l’autogestione della casta dei ricercatori e non basta il pregiudizio mistico per impedire che si pratichino scelte pericolose per la sopravvivenza del pianeta, oggi la scienza ha il potere di modificare il paesaggio, l’ambiente, l’essere umano, un potere che prima nella storia non ha mai avuto, è importante vigilare su questo con i mezzi della ragione, anche se evidentemente si tratta di una ragione “altra” rispetto a quella del “profitto”. È fondamentale che tutti coloro i quali non si identifichino nella categoria di “cittadino” (o utente), tanta cara alla democratica informazione di massa, cerchino di provocare un’uscita quanto più rapida possibile da questo stallo ideologico, ciò per il bene di tutti, scienziati e preti compresi, attraverso gli strumenti della politica, costringendo il “palazzo” ad accettare le voci che non siano soltanto quelle di coloro che sono economicamente interessati, includendo quelle di coloro che lo sono di fatto perché vivono ed esistono su questo pianeta, in questo paese, e che intenderebbero farlo ancora a lungo, possibilmente.
L’auspicio è che possano nascere e svilupparsi sempre più comitati di controllo e intervento e conflitto sui prodotti della scienza: comitati, collettivi, situazioni dove a livello territoriale, e a livello globale, trovare un punto di vista condiviso soprattutto tra i non “addetti ai lavori”, rompendo lo scudo della conoscenza dietro il quale troppo a lungo queste caste si sono celate, ricollegando e smascherando la scienza, separandola dall’ambito economico nel quale è sempre più rintanata [Lo strumento di controllo delle masse fondamentale nel medioevo per la religione era l’ignoranza, lo spauracchio che di nuovo oggi gli scienziati utilizzano per estromettere chi non fa parte della casta. Nuove tecnologie con vecchi metodi, la religione rimprovera alla scienza ciò che l’ha resa potente in passato, forse teme di essere soppiantata e, per giunta, proprio con i suoi stessi metodi].
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