domenica 16 dicembre 2007

Aforismi in forma digitale - Secondo flusso di dati


L'altro


Connesso


Connesso con il mondo


Un mondo a bocconi che mangio ma non digerisco


Non digerisco l’a me prossimo


Il prossimo è incommestibile


Non è incommestibile il Lontano


Il Lontano è digeribile, connesso


Connessione, disconnessione


Disconnesso dal mondo fisico


Iperconnesso con il Lontano virtuale


Virtuale, mondo, altro, me stesso


Me stesso bulimico


Bulimico, cannibale


cannibale connesso


Marco Caponera


martedì 2 ottobre 2007

La comunicazione incontrollabile e la scienza

Perché una riflessione sul legame tra scienza e comunicazione oggi quando il dialogo sulle sorti della scienza non appare all’ordine del giorno dell’agenda politica? Perché la riflessione sulla “scienza”, e sugli scienziati, viene sistematicamente lasciata alla dicotomia scienza-religione, come fosse questo l’unico intreccio possibile per venire a capo dei principi che devono guidare la ricerca scientifica. La politica istituzionale ha abbondantemente abdicato al proprio compito di garanzia e tutela nei confronti della sopravvivenza della specie umana sul pianeta e soprattutto ha abdicato al proprio compito istituzionale quello, cioè, di farsi soggetto collettivo in grado di indicare ciò che sia giusto, o sbagliato, nell’ambito delle ricadute sociali delle scoperte scientifiche e dell’uso che soggetti privati ne possano fare. Purtroppo viviamo una situazione che vede nel capitale privato una risorsa sempre crescente nell’ambito della ricerca scientifica e se ciò che guida il privato non può essere altro che il profitto, allora è necessario che la capacità d’intervento delle collettività sia sostanziale, ciò invece è il contrario di quanto accade e questo grazie alla “collaborazione” funzionale dei mass media. Mass media utilissimi per lanciare le campagne costruite ad hoc e decisivi quando, invece, per interesse di pochi, si deve far scendere il buio nell’opinione pubblica circa lo sviluppo scientifico.

Il non detto

La comunicazione scientifica in gran parte del globo terrestre, fortunatamente non in tutto, avviene attraverso i mezzi di comunicazione di massa, i quali si sostituiscono alla conoscenza diretta anche a ciò che attiene all’ambito alimentare, generando una forma di cultura non più im-mediata, tradizionale, culturale, ma al contrario frutto di variabili di mercato e tecnologiche che, in epoca di globalizzazione, si susseguono e si sostituiscono a ritmi vertiginosi, lontani da una forma di contatto effettiva con interessi e attitudini propri dei soggetti che subiscono queste informazioni senza una reale possibilità di sottrarvisi. L’informazione, nonostante il ricorso ossessivo alla tecnicizzazione, o al contrario proprio a causa di essa, non è in grado di descrivere le disarmonie cui la società sta andando incontro, quindi indicare i modi o più semplicemente gli ambiti ove correre ai ripari. Disoccupazione di massa, desertificazione, buco dello strato d’ozono, effetto serra, fame nel mondo, nazionalismi xenofobi, terrorismo, alimenti transgenici, [Cfr. M. Caponera, Transgenico NO, Roma, Malatempora Editrice, 2000.] clonazioni, sono soltanto alcune delle manifestazioni evidenti del sottosviluppo sociale e materiale, che il cosiddetto progresso capitalistico incondizionato potrà produrre da qui a non molto, senza contare gli effetti irreversibili già avviati e non più arrestabili. Le informazioni, infatti, non agiscono nel vuoto: esse riguardano qualcosa e si rivolgono a qualcuno; esse non esercitano un’influenza in astratto, bensì su donne e uomini che pensano e agiscono. È importante, inoltre, notare che le maggiori capacità tecniche di comunicazione, dovute all’inseguimento costante del ritrovato tecnologico superiore alla testata concorrente, portano a capacità di manipolazione sempre maggiori. Al contrario, invece, non portano necessariamente ad un aumento della qualità dell’informazione, poiché padroneggiare la tecnologia non è cosa immediata, né gratuita, così a farne le spese come al solito è la qualità a vantaggio della quantità, unica ad essere tecnologicamente garantita.

Il non detto in realtà può essere comunicato; non è un problema tecnico ma di linguaggio. La difficoltà di comunicazione scientifica non sta tanto nel problema della comunicazione dei concetti ma piuttosto nella volontà deliberata di chi fa informazione di eludere, quindi non palesando, quelle che sono le problematiche, gli errori, i limiti di una scienza che si suppone esatta ma che nella pratica appare piuttosto approssimativa. Il non detto è ciò che non deve essere comunicato poiché lederebbe in maniera significativa l’immagine della scienza, dello scienziato e delle multinazionali impegnate nella ricerca.

Spettacolarizzazione della scienza


I media forniscono un’informazione tecnico-scientifica scadente e filo aziendale, per via della sudditanza dovuta alla dipendenza dalle inserzioni pubblicitarie, I dossier divulgativi d’argomento scientifico prodotti dai media risentono significativamente:
1) della convinzione da parte degli addetti ai mass-media che i fruitori dell’informazione siano una massa di analfabeti incapaci di decodificare messaggi che contengono argomentazioni scientifiche e a cui ci si deve rivolgere per metafore, immagini e, a volte, onomatopee;
2) della necessità dei media di spettacolarizzare gli argomenti in esame per attrarre maggiore ascolto possibile;
3) del fatto che, nessuno escluso, sopravvivono grazie ai contributi degli inserzionisti, i quali molto spesso sono i protagonisti della programmazione stessa, quindi è praticamente impossibile per qualunque testata giornalistica essere obiettiva e imparziale quando ciò comporti un danno di immagine per i propri inserzionisti. In questo modo grazie alle motivazioni sopra esposte, risulta chiaro che i mezzi di informazione di massa non sono e non saranno mai dalla parte di coloro i quali dicono di servire. Schematizzando: essi non fanno informazione puntuale, seria e obiettiva.

La comunicazione si nutre di tecnologia, come la tecnologia si nutre di comunicazione. Questo binomio rappresenta la chiave di volta di tutto il sistema di produzione – di sovrapproduzione - che ha preso a giovarsi considerevolmente del potere del linguaggio pubblicitario, inteso non solamente come forma di promozione di prodotti determinati, bensì come insieme di istituzioni spettacolari di ampio respiro, atte a manifestare e impostare la consapevolezza e la conoscenza diffusa del mondo merceologico totale. L’ideologia del consumo non si forma soltanto negli spot mediatici, ma abbraccia ogni branca del sapere e del vivere, in maniera tale da coprire tutte le manifestazioni e i luoghi possibili del vivere associato. Per dirla con Guy Debord l’ideologia spettacolare consuma la città nella campagna e viceversa; essa determina i modi e i termini sia della vita associata cittadina sia della vita appartata delle campagne facendone luoghi-merce, e contemporaneamente luoghi-consumo intercambiabili, li priva dello status materiale e li divizza. Così impostato geograficamente il merceologico linguistico detiene il controllo e attraverso il consumo raggiunge il fine economico [Cfr. G. Debord, La société du spectacle, 1967, trad. it., Milano, Baldini e Castoldi, 1997]. Gli individui sono mantenuti nella presunzione di controllare l’uso che fanno del proprio consumo (anche alimentare) e del proprio linguaggio, facendo dell’autoregolazione il baluardo contro la sopraffazione da parte del sistema economico-globale. La consapevolezza di questa situazione contraddittoria sarebbe la prima manifestazione del controllo totale e della sua affermazione universale, poiché al contrario di quanto possa pensare di sé un qualunque cittadino del mondo occidentale: qualcun altro, nel momento in cui lui pensa se stesso, l’ha già pensato e trasformato in consumatore passivo indicandogli il modo in cui guardarsi, sentirsi, riconoscersi e alimentarsi. Il nodo della questione è che la propaganda ideologica contemporanea non inizia e non finisce in corrispondenza di uno spot o di una campagna elettorale: essa ha radici e forme di controllo molto più profonde che derivano essenzialmente dal tipo di sistema economico cui fa riferimento e che, per forza di cose, sostiene.

Il controllo delle masse da un punto di vista geografico-mediatico avviene in maniera concentrata e diffusa nello stesso momento, amplificando a dismisura le potenzialità di entrambe le modalità d’azione. La gestione della popolazione, delle sue scelte e delle sue aspirazioni, oggi è concertata in maniera complessa e combinata, e non casuale come avveniva agli inizi del secolo quando, come ricorda Debord, negli stati pseudo-comunisti si effettuava una forma di controllo concentrata e, al contrario, nei paesi detti occidentali, il controllo era praticato con metodi diffusivi [Cfr. G. Debord, Commentaires sur la société du spectacle, 1988, trad. It, Milano, Sugarco, 1990]. Non è assolutamente ammissibile che esistano, in epoca globale, forme d’arte, d’aggregazione sociale e di alimentazione diverse da quelle istituzionali, ma queste ancora oggi seppur ghettizzate e fortemente marginali sussistono, esempi lampanti ne sono gran parte della letteratura latino-americana che ha un suo modo di vedere e interpretare il vissuto quotidiano e le sue manifestazioni politiche in perfetta antitesi e in aperta polemica con gli intenti del mondo civile; sul versante sociale troviamo per esempio popolazioni indigene quali quelle messicane – per tacere di molte altre - che rifiutano forme di organizzazione e sfruttamento dell’uomo da parte del suo simile, poiché vivono sulle proprie spalle e su quelle dei propri figli tutto il potere dello sviluppo del mondo occidentale e del sottosviluppo che invece ad essi è stato imposto. Nel manifestare il proprio dissenso e il proprop antagonismo, tuttavia, non si limitano a combattere le multinazionali dello sfruttamento sul loro stesso terreno, ma offrono un esempio di organizzazione sociale e politica non gerarchica fondata sul principio della cooperazione, della solidarietà, dell’autonomia individuale e del pacifico sviluppo delle attitudini umane, offrendo così un esempio di civiltà ben più alta di quella raggiunta dagli squadroni della morte al soldo di Stati Uniti e Messico che, purtroppo per loro, dall’esistenza e dalla sopravvivenza di questi popoli traggono solamente perdite economiche. Non ci sono rivoluzioni tecnologiche in atto, non esiste ancora un dominio completo della macchina sull’uomo, bensì l’integrazione delle esigenze di questo con le esigenze dell’economia, che ne organizza le forme. Quando da questo processo congiunto tra locale e generale si arriverà a conoscere una sintesi allora potremo parlare in maniera esaustiva di società globalizzata. Al momento esclusivamente la fantomatica new-economy (finanza, reti telematiche, biotecnologie) può fregiarsi dell’aggettivo “globale”, tra tutte le forme di contatto e d’associazione umane.

Blackout comunicativo

Gli scienziati rifiutano di riconoscere come interlocutrici figure non tecniche, giudicandole incompetenti. Gli scienziati insistono ancora oggi nel non volersi occupare di etica o politica, cioè delle ripercussioni dei loro esperimenti-prodotti di laboratorio nella realtà e quindi nell’ecosistema. Questi due opposti logici generano un clima di completa incomunicabilità da parte degli scienziati nei confronti del resto del mondo che invece dovrebbe rappresentare a rigor di logica il vero e proprio scopo della scienza. Chi si avvantaggia di queste logiche paradossali naturalmente è il “mercato”, da sempre avversario di uno sviluppo eco-compatibile e quindi di una visione seria di “progresso” che implichi un miglioramento della condizione esistenziale reale della specie umana e non ultimo dell’intero pianeta. L’anacronistica declinazione di responsabilità cela il sinistro intento di tenersi e godere di uno spazio d’autonomia politica nei confronti del lavoro di laboratorio. Quest’ultimo però, purtroppo, non esiste svincolato dalla realtà esterna, o per meglio dire le sue regole sono autonome e fondate fintanto che i prodotti non entrano in contatto fisico con il mondo esterno. I laboratori sono luoghi asettici che nulla hanno a che fare con la realtà dell’ecosistema, con il suo complesso equilibrio di forze. Un’invenzione biotecnologica che, ad esempio, si comporti perfettamente in ambiente di laboratorio, non garantisce che questo si possa ripetere una volta immessa in ambiente naturale, anzi il più delle volte, come è già accaduto con il morbo della “mucca pazza” l’ambiente rigetta la modifica forzata con conseguenze che possono divenire catastrofiche. Una posizione così comoda per lo scienziato e al tempo stesso così pericolosa per il mondo intero non la si è mai garantita nella storia a nessun soggetto scientifico, politico, sociale, o medico.

Concludendo, oggi viviamo uno scontro di “civiltà” tra ideologia scientifica e ideologia religiosa. Da un lato l’onnipotenza dello scienziato senza freni etici o politici, dall’altro l’onnipotenza di Dio unico artefice della creazione e, in quanto tale, non imitabile. L’unico confronto che si vuole venga riconosciuto è questo, su questo scontro si sono costruite tutte le ultime battaglie mediatiche di risalto internazionale. Anche in occasione di referendum politici sulla modificazione di alcune leggi dello stato italiano in materia medico-scientifica le uniche posizioni ammesse furono queste. La politica declina le sue responsabilità schiacciata tra le multinazionali farmaceutiche, e biotech, e le posizioni delle religioni intransigenti sui principi cardine dei propri dogmi. Come se non fosse possibile ragionare in materia di scienza con dettami derivanti da un approccio politico-sociale alla questione. Come se la politica stessa non avesse più senso in questo panorama. Come se valesse soltanto la “morale” di chi riesce a imporre la propria morale. Questa è una terribile falsificazione della realtà, una nefasta semplificazione, che intende far interiorizzare a tutti che queste siano le uniche ideologie ammesse a parlare. Non basta l’autogestione della casta dei ricercatori e non basta il pregiudizio mistico per impedire che si pratichino scelte pericolose per la sopravvivenza del pianeta, oggi la scienza ha il potere di modificare il paesaggio, l’ambiente, l’essere umano, un potere che prima nella storia non ha mai avuto, è importante vigilare su questo con i mezzi della ragione, anche se evidentemente si tratta di una ragione “altra” rispetto a quella del “profitto”. È fondamentale che tutti coloro i quali non si identifichino nella categoria di “cittadino” (o utente), tanta cara alla democratica informazione di massa, cerchino di provocare un’uscita quanto più rapida possibile da questo stallo ideologico, ciò per il bene di tutti, scienziati e preti compresi, attraverso gli strumenti della politica, costringendo il “palazzo” ad accettare le voci che non siano soltanto quelle di coloro che sono economicamente interessati, includendo quelle di coloro che lo sono di fatto perché vivono ed esistono su questo pianeta, in questo paese, e che intenderebbero farlo ancora a lungo, possibilmente.

L’auspicio è che possano nascere e svilupparsi sempre più comitati di controllo e intervento e conflitto sui prodotti della scienza: comitati, collettivi, situazioni dove a livello territoriale, e a livello globale, trovare un punto di vista condiviso soprattutto tra i non “addetti ai lavori”, rompendo lo scudo della conoscenza dietro il quale troppo a lungo queste caste si sono celate, ricollegando e smascherando la scienza, separandola dall’ambito economico nel quale è sempre più rintanata [Lo strumento di controllo delle masse fondamentale nel medioevo per la religione era l’ignoranza, lo spauracchio che di nuovo oggi gli scienziati utilizzano per estromettere chi non fa parte della casta. Nuove tecnologie con vecchi metodi, la religione rimprovera alla scienza ciò che l’ha resa potente in passato, forse teme di essere soppiantata e, per giunta, proprio con i suoi stessi metodi].

sabato 25 agosto 2007

La Rete

Mangio

Mangio la mia connessione

Connessione a un ingenuo mondo

Mondo fatto a bocconi

Bocconi che non formano un corpo

Il corpo rimane lontano dalla mia bocca

Bocca che apparentemente è illimitata ed esaustiva

Esaustiva come esausto è il mio appetito

Appetito tramite singoli bocconi che non celano un senso

Senso della conoscenza

Conoscenza negata per me stesso

Me stesso che nell'errare continuo rifugge dalla comunità

Comunità che si nega alla comunicazione

Comunicazione in silenzio

Silenzio dell'esserci

Esserci non più nel mondo

Mondo mangiato non vissuto

Non vissuto ma digerito

Digerisco come mangio, ma non bevo

Non bevo, eppure deglutisco l'angoscia innaturale

Innaturale l'apparire dove la sostanza è celata

Celata a me stesso, ai connessi, ma non a questa tastiera

Tastiera alfanumerica, tastierino numerico, schermo, mouse

Mouse, gli strumenti del comunicare

Comunicare, dov'è questo comunicare tramite mutilati sensi

I sensi fagocitati e ruminati dalla macchina

La macchina riesce a digerire tutto ciò che mangio

lunedì 11 giugno 2007

No Copyright / parte II

L’editore no copyright
di Marco Caponera

Così come controverso appariva per l’autore, così il copyright appare in relazione alla figura dell’editore. Precedentemente ho avuto modo di spiegare come di fatto si avvantaggi più l’editore dell’autore della presenza della protezione del copyright, ma anche l’editore ha modo di porsi in una posizione antagonista allo status quo, ma facendo a sua volta una scelta assolutamente radicale.
Infatti, apparentemente violare, liberarsi, dal copyright costituirebbe un danno per una qualunque casa editrice, ma così non è.
I due esempi di postilla al no copyright che suggerivo recitavano rispettivamente: “deve essere citata la paternità dell’opera”: e questa è evidentemente diretta a favorire la “presenza” dell’autore in relazione allo scritto; mentre l’altra “ad esclusione dei fini commerciali”: è invece diretta a escludere lo sfruttamento commerciale dell’opera da parte di soggetti estranei alla pubblicazione.
In questo caso il vantaggio è sì per l’autore ma anche e soprattutto per l’editore nel vedere tutelato il proprio lavoro. Scendendo nel particolare, tempo fa, quando lavoravo part-time presso la biblioteca della mia facoltà mi capitò di comunicare all’editore di un bollettino editoriale, il fatto che il loro distributore per le biblioteche, proprio in virtù dell’assenza totale di copyright della pubblicazione, provvedeva a inviarne una versione in fotocopia a tutti i propri clienti, ricavandone un pagamento pieno rispetto alla pubblicazione originale. Mentre all’editore dell’opera non arrivava che il pagamento di un’unica copia, quella per realizzare le fotocopie. Questa operazione, a ben vedere, potrebbe avere anche gli estremi di una truffa poiché le biblioteche pagavano il prezzo della rivista originale, venendo in possesso di una semplice fotocopia. Per l’editore invece non può dirsi altrettanto perché fotocopiare, anche per fini commerciali, quel bollettino era consentito proprio dalla rinuncia alla tutela del copyright. Questo esempio mi sembra illustri molto bene quanto intendo dire al proposito.
L’opera libro, o rivista, infatti non è soltanto costruita dal suo contenuto, ma anche da tutti gli elementi che ne costituiscono la “forma”: il formato, la copertina, il tipo di carta, il lavoro bio-bibliografico, di cura, di editing e di impaginazione. Tutti questi elementi caratterizzano l’opera nel suo complesso e nella sua forma materiale. Il libro, la rivista. Ora non considerare questo lavoro equivarrebbe a considerare l’editore alla stregua di un tipografo, e non è così.
La dicitura di cui parlavo, rende possibile qualificare queste attività e la protezione dell’opera passa significativamente da una protezione limitante della circolazione delle idee, dentro la logica del diritto d’autore, a una semplice tutela del lavoro svolto per realizzare l’oggetto libro, fuori da questa logica ma non per le attività lucrative. I principi che fondano le due impostazioni ideologiche sono molto differenti. L’importanza ideologica del no copyright rimane quindi immutata. La possibilità oggettiva di circolazione anche dell’intero libro anch’essa immutata, viene però impedito a soggetti estranei di impossessarsi di un guadagno realizzato a danno del lavoro altrui.
Perché un editore “alternativo” possa affermarsi non serve il copyright, che come per l’autore, è soltanto uno specchietto per le allodole che serve per tutelare ben altri interessi.
Per comprendere ancora meglio si deve ampliare il discorso: il problema vero che ogni editore conosce bene è la possibilità di avere visibilità mediatica, una distribuzione almeno nazionale e l’effettiva presenza in libreria.
Faccio un altro esempio sempre legato alla mia esperienza diretta: la casa editrice per cui curo la collana di saggistica, Le Nubi Edizioni, ha apposto il no copyright sul mio libro, “La sparizione del reale”. Questo testo, attualmente risulta essere il più venduto della collana di saggistica – anche grazie alla bella illustrazione di copertina realizzata da Virginia Bray, una illustratrice dalle grandi capacità simboliche di interpretazione del testo – anche in presenza di autori ben più importanti e affermati. Questo, lungi dal volermi paragonare a filosofi di cui sono semmai soltanto un allievo, fa emergere un dato importante in questo contesto. Il libro, indipendentemente dalla copertura del copyright viene acquistato, in molti hanno deciso di spendere i propri denari per entrare in possesso di una copia originale del libro e non di una fotocopia. Non solo, lo stesso titolo verrà tradotto in Portogallo da una casa editrice che stava seguendo alcune opere pubblicate da Le Nubi Edizioni. Anche qui, senza un editore controcorrente non sarebbe stato possibile varcare gli angusti limiti di lingua e nazionali. Senza la visibilità offerta da un sito internet specializzato nella vendita di piccoli e medi editori, con il quale abbiamo realizzato una collaborazione, l’editore portoghese non avrebbe conosciuto la casa editrice. Un circolo virtuoso questo che non è stato per nulla bloccato dalla assenza di protezione del diritto d’autore.

Con questo intendo anche dire che un progetto editoriale alternativo (prendendo il termine nell’accezione più ampia possibile) è frutto di una intenzione precisa e non è un semplice ornamento. Il no copyright non è un accessorio, fare la scelta del no copyright non può essere di “moda”, né di “ornamento” ideologico dei propri scritti. Rifiuto la posizione radical chic di chi “liberalmente” si pone in posizione di superiorità morale nei confronti del copyright. Il no copyright è, prima un’affermazione, poi un atto politico, una forma di antagonismo nei confronti di Microsoft, Vivendi, Sony, RCS, Mondadori ecc… La diffusione conflittuale di idee estranee al sistema in toto, o in massima parte, è immediatamente atto politico, la proliferazione delle idee è un passo necessario, gli strumenti sono perfino ridondanti per lo scopo, ma la loro utilizzazione è spesso contraddittoria o idealizzata. Avere uno strumento a disposizione e saperlo usare non porta automaticamente a un risultato utile alla causa. Come saper scrivere non equivale a scrivere cose intelligenti. C’è bisogno di strumenti, di “attrezzi” critici, che nascono tali e non lo diventano per caso o per fraintendimento.
Il conflitto sul diritto d’autore in questo momento volge al peggio, o almeno così sembra guardando gli accadimenti internazionali. Già stiamo sperimentando i danni madornali dei sistemi anticopia, ma a breve se non si riuscirà a imporre un freno a questi sistemi, che ora sono facoltativi, verranno imposti a tutti i produttori di software e musica, coinvolgendo di fatto anche coloro che sono contrari alla protezione economica dalla copia.
In ambito editoriale della carta stampata, la prima cosa che mi viene in mente possano fare sarà rendere obbligatorio il bollino SIAE cosa che accade già per la musica. Non immagino quale possa essere il passo successivo, ma già a questo punto il copyleft non ci aiuterà più a far apparire belli e liberi i nostri “contenuti” perché la “forma” che questi avranno sarà fatta di sbarre e cancelli e non più di carta e inchiostro.

mercoledì 21 febbraio 2007

Dell'inutile

di Marco Caponera
Anzitutto è inutile che io sia qui, seduto davanti a uno schermo di 17", a scrivere; dovrei essere al lavoro, ma nonostante una volenterosa alzata, sono dovuto tornare a casa, con la coda tra le gambe, per manifesta inferiorità, nel senso che non mi sono sentito bene e non reggendomi in piedi ho preferito lasciare ad altri le mie fatiche.
Così davanti a questa tastiera potrei scrivere l'articolo che aspetta da un po', non lo farò.
Potrei proseguire a lavorare al mio libro, non lo farò!
Potrei dedicarmi allo studio dell'Html, per esempio, non lo farò!
No ho alcuna intenzione di sdraiarmi a letto per riposare, accondiscendendo irreparabilmente alla necessità di un fisico a tratti memore di essere cagionevole, non lo farò!
Scrivo e mi diletto dei miei inutili pensieri inviati senza un valido motivo ad uno o più ignari destinatari, attraverso lo strumento più disumano che conosco...
Sull'inutile come concetto filosofico mi interrogo da anni. Da quando per tutta una serie di inutili e futili coincidenze mi scontrai con diversi autori, i quali, senza il coraggio necessario per una esaustiva trattazione, si limitavano però a citare l'inutile come concetto creativo.
Heidegger, in "Sentieri interrotti" tratta il tema dell'inutile, attraverso il racconto di una parabola orientale. È inutile che la trascriva chi ha tempo e poco da fare se la vada a leggere. Semmai ve la sintetizzo. In estrema brutalità la parabola orientale narra di un albero secolare dalla forma così irregolare e nodosa, da risultare inutilizzabile per qualsivoglia destinazione. Proprio ciò ha reso la vita dell'albero lunghissima e ha donato lui il rispetto dei "vicini". Questa per me è l'essenza ultima dell'inutilità: l'inutilizzabile dura, sopravvive a se stesso, al "sistema" in cui è inserito, agli altri. L'importanza oggi dimenticata delle cose inutili è la forza della vita. L'albero della nostra storia è brutto, quindi non viene disegnato, fotografato, ammirato; è nodoso quindi non viene tagliato fatto diventare tavolo, sedia o armadio; non fa ombra, quindi non si presta per la siesta delle terribili estati tropicali europee. È lì semplicemente, semplicemente è. Venitemi a raccontare che l'essere non è. Che l'essere cede all'apparire. L'apparire cede al tempo, al consumo, all'utile. L'essere-albero no! Non cede che alla vita! Chi le resiste?!
Non annoio oltre con questo...
Ma l'inutile è asistemico per diversi altri motivi, quando troverò il tempo (ne avete qualche chilo, litro o cent?), e mi mancherà ancora uno scopo nella vita, mi dedicherò alla stesura di un qualche tipo di libro su di esso. Poi inutilmente cercherò un editore disposto a pubblicarlo...
Mi accorgo dell'inutilità della continua ripetizione nel testo del soggetto (inutile)... quindi continuo ad utilizzarlo imperterrito!! Dicevamo l'inutile...l'inutile come dono, come assenza di scambio mercantile. Anche qui potrei citare gli studi svolti dal "Mauss" istituto francese di studi sull'utilitarismo e l'anti-utilitarismo, ma le ricerche inutili vanno fatte di persona, debbono far perdere tempo, quindi se ve ne frega qualcosa andate a cercare. Quelli del Mauss asseriscono che ci sono moventi umani che sfuggono alla teoria dello scambio economico. Credo sia assodato per tutti che non vi può essere coerente ed esaustiva alterità rispetto al sistema-globale?!!? Ebbene questi poveracci provano a dire che non tutto nella nostra vita è governato dall'economia e dall'avere (Fromm). Concordo! Sono un poveraccio anch'io e come tale senza aver nulla da perdere asserisco, senza preoccuparmi delle smentite che qualcosa sfugge all'utile. Ci sono delle TAZ (zone temporanemaente autonome, vedi H. Bey) che dal loro apparire e scomparire mettono in momentanea crisi lo status quo. Poi tutto viene riassorbito, come in un videogame giapponese, dove vince sempre il più potente. Non potendo sussistere un eterogenesi totale delle menti, si possono creare dei black-out temporanei in cui il soggetto può varcare il confine dell'utile e ritrovarsi improvvismente nella gratuità dell'agire, del sentire, dell'essere. Non è facile, anzi per dirla tutta non so esattamente di cosa io stia parlando, ma l'essere-albero testimonia della possibilità. La guerriglia filosofica deleuziana è tutta in questo scontro, tra potere e non potere. Attenzione: non diverso potere, ma non potere. Non è battaglia campale è guerriglia!!
L'inutilità dell'esistenza: è un pre-requisito dell'esistenza inutile, è la genesi della stessa, un po' come il farsi cammello, leone e infine fanciullo nietzscheano. L'uomo (donna) non è un fine, ma un passaggio e come tale la sua utilità non è nel dire, fare, baciare, ma nell'essere punto e basta. Non c'è trascendente che tenga di fronte a ciò, non c'è fine escatologico, o anima. Soltanto l'affermazione dell'essere uomo (donna), la sua insulsa, avida, esistenza. A questo punto mi si presenta un interrogativo: e l'oltre-uomo? Non risponderò, tuttavia vi lascio con una affermazione dell'amico in spirito Friederich Nietzsche: "Di quanto fu scritto amo soltanto ciò che fu scritto col proprio sangue. Scrivi col sangue: e imparerai che il sangue è spirito. Non è facile comprendere il sangue degli altri, odio gli oziosi che leggono".
In conclusione provvisoria vi cito la colonna sonora dell'inutile attuale: Dave Brubeck, Time Out, scelta perchè stonata, fuori tempo, rispetto alle più blasonate produzioni politically correct!!